ACERO E L’ALBERO

Laura Ometto

C’era una volta un albero. Il suo nome era Acero, perché, a voler essere precisi, era un Acero di monte (o Sicomoro), anche se nessuno dei suoi amici aveva mai usato il suo nome per esteso: tutti infatti preferivano chiamarlo Ace, o anche solo Ce, e questo da quando si conoscevano, quindi, a dire il vero, da sempre. Ritti sul suolo inclinato di una vallata, crescendo vicini l’uno all’altro, Ace e i suoi amici avevano formato, negli anni, un boschetto molto affiatato.

Poco distante da loro vi era un paesino il cui centro, grazie al vecchio campanile della chiesa di San Rocco che spuntava tra i tetti e i vicoli, era il punto di riferimento principale per tutte le altre casupole sparse che costellavano il paesaggio. Il tutto poi poteva dirsi protetto dai maestosi pendii tutti intorno, con chiazze di roccia come macchie di colore schizzate qua e là tra le nuvole di chiome.

Venendo ora ad Ace bisogna dire che, pur essendo un albero, aveva delle qualità caratteriali ben precise: infatti, anche se non lo si sarebbe mai detto vedendolo scherzare con i suoi compagni, era di base un tipo molto timido e introverso; certo, con loro stava bene e poteva essere se stesso in ogni momento, ma gli ci erano voluti anni prima di sentirsi veramente libero e spontaneo. Questo proprio per com’era lui, estremamente riflessivo, con molte paure e blocchi di varia natura che gli altri, a differenza sua, sembravano non avere.

Per ciascuno di loro era lo stesso: si volevano tutti un gran bene e il passare degli anni, e dei decenni, sembrava non avere altro effetto che rafforzare il loro legame. In più, la lenta e costante crescita delle loro dimensioni li portava ad essere sempre più vicini l’uno all’altro, tanto che poco a poco alcuni di loro riuscirono a sfiorarsi con i rami e le radici.

Quando giunsero ad essere alberi maturi, ciascuno con la propria corteccia robusta, conoscevano tutto l’uno dell’altro e condividevano ogni esperienza della vita con uno spirito al plurale e una sana, costante ironia. Insomma, c’era quell’energia positiva che, come un benefico elisir, sanava anche gli inevitabili momenti di noia o di disaccordo che a volte rischiavano di rovinare qualche bella giornata.

Più passava il tempo, meno ognuno di loro sarebbe riuscito a pensare ad un’esistenza diversa da quella che conducevano, in compagnia di quei quattro legni contorti che sapevano trasformare quel posto nel miglior posto al mondo in cui stare. Nel frattempo però, l’indole riflessiva e profonda di Ace lo portava a pensare e ripensare al presente, al passato, al futuro… insomma, a tutto. Qualche volta gli capitava, in particolare quando calava il silenzio prima di addormentarsi, che gli salisse anche un po’ di paura: cos’avrebbe fatto se un giorno avesse perso i suoi amici? Non aveva mai provato la solitudine, neanche da piccolo, e considerato quanto stava bene con loro, solo a pensarci si spaventava al punto da farsi scappare qualche lacrima. La cosa, per fortuna, durava poco e spesso riusciva ad addormentarsi ridacchiando tra sé perché gli veniva in mente qualche battuta sugli uccelli fresca della giornata appena trascorsa.

Un giorno, verso la fine dell’inverno, accadde però qualcosa di terribile e inaspettato.

Arrivarono degli uomini armati di motoseghe (cosa che non avrebbe dovuto spaventarlo: ogni anno, infatti, gli uomini venivano a potare alcuni dei suoi amici), ma stavolta queste erano più grandi e rumorose del solito, e non lasciavano presagire nulla di buono. Che cosa stesse cambiando, per sempre, fu chiaro nelle ore successive: Ace si sentì, per un tempo indefinibile, uno spettatore passivo, che non poteva parlare e che non poteva fare nulla.

L’ambiente intorno a lui si trasformò, in poco tempo, in un grande campo erboso liscio e spoglio, con delle piazze di terra scura qua e là.

All’improvviso, le giornate divennero tutte come quell’istante in cui ogni sera, in silenzio, al buio, prima di addormentarsi, rimuginava sulle cose della vita lasciando che il pensiero vagasse tra il bello e il brutto, senza confini; come se quell’unico momento, fatto di riflessioni caotiche e incontrollate, si fosse ora dilatato fino a divenire notte e giorno e primavera, estate, autunno, inverno.

La sua nuova e quanto mai temuta esistenza fu da subito impregnata di quel nuovo clima gelido dovuto al senso di solitudine. Quella primavera, anche se dirlo è superfluo, i suoi fiori furono molti di meno e, a voler giudicare il suo aspetto, si sarebbe detto che fosse affetto da una brutta malattia… Ciò nonostante, in breve tempo molte persone cominciarono a fare di quel prato, che divenne tutto verde e regolare, il loro luogo ameno per leggere, giocare, chiacchierare, banchettare, rilassarsi o dormire.

Nessuno di loro sembrava percepire la grande sofferenza che sciupava il grande albero all’ombra del quale si riposavano. E questo perché ciascuno di loro era concentrato solo su sé stesso. Come accade spesso anche tra noi stessi umani, d’altronde.

Giunse presto anche la fine dell’autunno successivo. Quando anche le ultime foglie erano ormai cadute, e i rami aspettavano solo di essere coperti di neve da un momento all’altro, accadde però qualcosa di imprevisto: un bambino si affacciò all’entrata del parco e, a grandi passi, cercando di non inciampare sui mucchi di foglie che si erano depositate ai piedi del grande albero, gli si avvicinò, la mamma pochi passi indietro, e lo abbracciò.

Sembrava non volesse lasciarlo più. Rimase lì per un certo tempo e Acero sentì che da quel cappottino, da quelle manine e da quella piccola guancia rossa premuta sulla corteccia, si sprigionava un calore così profondo e benefico che lo avvolse e lo fece sentire piano piano più leggero, forse un pochino consolato. Non avrebbe potuto dire come stava di preciso, ma era certo che non si sentiva così da molto, molto tempo. Infine, prima di staccarsi, la sua vocina nel freddo sussurrò: Ho espresso il mio desiderio, ciao albero!”.

Trascorse anche il tempo della neve, durante il quale Acero aveva ripensato spesso a quell’inaspettato gesto ricevuto dal piccolo sconosciuto: non poteva dimenticare il calore che aveva provato. Si stupiva di come la cosa non lo avesse lasciato per niente indifferente. Da quel momento, infatti, gli sembrava fosse cambiato il suo modo di vedere le cose: si sentiva meno appesantito, non era più oppresso dal senso di vuoto che fino a quel momento aveva svuotato ogni cosa di bellezza e di significato e, a pensarci, di quel potenziale ironico che sembrava non mancare mai quando stava con i suoi amici.

A loro continuava a pensare tutti i giorni, e come avrebbe potuto non farlo? Ma improvvisamente riusciva di nuovo a ricordare le battute che li avevano fatti tanto ridere. Ora quel pensiero non era più uno strazio, ma un sollievo. Sapeva ridere ancora. Da quel giorno, inoltre, aveva cominciato addirittura a sentirsi meno solo, anche se, di fatto, non era cambiato niente attorno a lui. Forse aveva finalmente superato il senso di abbandono, di fine, dal quale non aveva mai sperato di riuscire a risollevarsi? Quel piccolo gesto aveva scompigliato l’ordine stagnante delle cose e, con una forza impossibile da descrivere, era riuscito a risvegliare in lui una vita che era sicuro gli fosse stata portata via per sempre, in quel giorno grigio di lame e rumore.

La primavera che ne seguì fu, infatti, come una nuova prima esperienza, e gli sembrò di scoprire con stupore un sacco di cose verso le quali provava, inaspettatamente, un enorme senso di gratitudine: cose come le api che affollavano numerose e ordinate i suoi bei fiori bianchi, gli uccelli che nidificavano innamorati tra i suoi rami e persino gli umani, grandi e piccoli, che trascorrevano un po’ del loro tempo dalle sue parti.

Ma ora, io che ti sto raccontando la storia di Ace, mi rivolgo un attimo a te che stai leggendo e ti chiedo: per caso, ti è mai capitato che un giorno, guardandoti attorno in un ambiente familiare (che quindi conosci benissimo), tu abbia avuto come l’impressione che ci fosse qualcosa di diverso ma senza riuscire a capire cosa?

Ecco, una mattina Acero provò esattamente questa sensazione e non riusciva proprio a capire di che cosa si trattasse!

Ma dopo un po’, come succede anche a noi, all’improvviso: ecco! Ma come aveva fatto a non accorgersene subito?

C’era un albero! Sì, un albero, davanti a lui, e anche bello grande! Ma quando era spuntato? Come aveva fatto a non averlo mai visto, dato che era già grande!?

Un sacco di domande come queste cominciarono a frullargli nella mente. Doveva dire qualcosa a quello sconosciuto dall’aria aperta e cordiale, a quel suo simile che non riusciva a ricondurre ad una specie ben precisa perché nel suo aspetto coesistevano caratteristiche molto diverse in un’inspiegabile e perfetta armonia. Chi era? Cos’era?

Stava per parlare al curioso nuovo arrivato quando, d’un tratto, un’altra presenza fece la sua comparsa nel parco catturando subito la sua attenzione: era un saltellante giovanotto che Ace si rese conto subito di conoscere fin troppo bene. Teneva per mano un anziano signore, il quale si lasciò condurre dal piccolo fino al suo tronco. Questa volta però il bambino lasciò che fosse il nonno (così lo chiamava) ad avvicinarsi: questi, dopo averne scrutato con grande attenzione il fusto e i rami, allungò la mano per accarezzare la corteccia con un gesto deciso, come se volesse accertarne la robustezza. Poi, dimostrandosi compiaciuto come per la buona riuscita di un suo strano esperimento, si girò verso il nipote. L’altro guardò il nonno e per un attimo non si mosse. Poi, rosso in volto, balzò verso Acero per abbracciarlo di nuovo, ma questa volta piangendo sommessamente tra sé. Poi, senza dire nulla se ne andò con il nonno.

Non dovete dimenticare che gli alberi sanno cogliere con chiarezza tutti i sentimenti provati da qualsiasi essere vivente, anche quelli che noi umani cerchiamo di nascondere o mascherare. Acero infatti avvertiva la sofferenza nel cuore energico di quella creatura che, nel suo piccolo, gli aveva dato così tanto, ma avvertiva anche una gioia, una immensa soddisfazione. Non capiva il contrasto che proveniva da quell’abbraccio così stretto, ma, diciamolo, un abbraccio fa sempre sentire meglio, sia chi lo dà che chi lo riceve, e fu così per entrambi. Tuttavia, doveva cercare di capire cosa volesse dirgli il piccolo questa volta.

Si ricordò del suo nuovo misterioso vicino che nel frattempo, non si sa come, sembrava essersi avvicinato ancora di più, tanto che qualcuno si era legato un’amaca ai due tronchi e, su questa, si stava già schiacciando un pisolino. L’umano in questione sembrava piuttosto vecchio, ronfava discretamente e non gli mancava nemmeno un libro aperto capovolto sulla pancia, che evidentemente pensava gli sarebbe servito per addormentarsi.

Acero, ancora pieno di domande che non avevano ricevuto alcuna risposta, fece per parlare ma neanche questa volta ebbe il tempo di dire alcunché perché fu l’altro a cominciare per primo.

«Ciao Ace!» disse cordialmente l’albero misterioso, «Io sono il tuo albero, piacere di conoscerti!»

«Ciao… Albero! Ma, aspetta: il mio albero? Cioè… chi sei? Io non mi sono nemmeno accorto di quando ti hanno piantato! E poi non mi ricordo di averti visto crescere, e ho notato solo ora quanto tu sia vicino a me! Ok che in questo periodo sono preso da così tanti pensieri che… però… Ma aspetta, tu conosci persino il mio nome! Forse sono diventato pazzo. Scusa se ti ho ignorato per tutto questo tempo…»

«No, scusami tu, è che adoro gli inizi teatrali: lanciare una frase d’effetto che non si capisce per creare un po’ di mistero, beh, rende il tutto più interessante! No, non sei pazzo, tranquillo, semplicemente io non sono mai stato qui… sono arrivato stamattina!»

«Ah ecco, va bene pensieri, ma… AR-RI-VA-TO STAMAT-TI-NA ?!??»

«Ahah!!! Sì! Dunque, ora ti spiego: io sono il tuo albero, perché mi sei stato affidato. Vengo da Feeria e gli umani non possono vedermi; gli animali sì, ma conoscono il mio segreto e per non far preoccupare gli umani ritengono conveniente evitare di appoggiarsi ai miei rami, o peggio, farci il nido, così si limitano a volarmi o camminarmi intorno.»

«Feeria hai detto? È il luogo di fantasia che sento nominare nelle storie che vengono lette ad alta voce ai bambini, qui, sul prato?»

«Esatto! Le fiabe e i racconti in cui si parla di Feeria in realtà non piacciono a tutti, perché ci vuole una certa sensibilità per apprezzarle e, soprattutto, bisogna considerare che il più delle volte per arrivare al lieto fine si passa per luoghi ed esperienze tutt’altro che piacevoli. Come nella vita del mondo di qua, d’altronde.»

«A chi lo dici…»

Ace si fermò un momento, lasciò che un impeto di commozione scaturisse silenziosamente come una lacrima, poi riprese:

«Scusami, non l’ho ancora superato del tutto, ma forse sai di cosa si tratta…»

«Lo so bene, e posso assicurarti che la perdita di chi amiamo non si supera mai, si impara solo a conviverci. Bello è quando il ricordo diventa una cosa che dà energia, anziché toglierla, ma ci vuole tempo e soprattutto la fiducia cieca nel fatto che la vita ha un senso, anche se non si vede o non è chiaro. È difficile, e lo è per tutti in quei momenti.»

«Già. Ho pensato spesso, ultimamente, che la mia vita non avesse più un senso. Ma, a dire il vero, qualcosa è cambiato con l’abbraccio di quel bambino: è cambiato il mio stato d’animo e ho cominciato a vedere un po’ di luce.»

«Sì, quel bimbo è davvero molto speciale.»

«Lo conosci?»

«Sì, ma da non molto tempo prima di te in realtà. È stato lui a chiamarmi quando ha desiderato profondamente di fare qualcosa per te. Neanche lui sa veramente cosa ha mosso per te nel suo mondo e nel mio! Non se ne vedono spesso di desideri d’amore così forti, tanto meno accompagnati da una fantasia come la sua. Da addetto ai lavori, posso proprio dire che quel piccolo è stato capace di fare un autentico capolavoro!»

«Sapevo che c’era… qualcosa in quel ragazzino. Ma, spiegati meglio: di umani buoni al mondo ce ne sono, ma cosa c’entra il fatto della fantasia? Di questo “non so cosa” che avrebbe generato un capolavoro? In fondo, ogni gesto d’amore è un capolavoro…»

«Certo, sono proprio d’accordo! In questo caso però lo è ancora di più: vedi, quel tipetto saltellante ha una grande sensibilità nei confronti di tutte le forme di vita, e gli alberi non fanno eccezione, anzi, per loro nutre un affetto particolare. A differenza di tutti gli altri suoi coetanei, infatti, non voleva mai andare al parco, perché sapeva che per crearlo avevano tagliato la maggior parte degli alberi che c’erano. Ma passeggiando, da fuori, ti guardava e rimaneva sempre affascinato dalla tua bellezza che spiccava sul tappeto verde. Qualche tempo più tardi, una sera per caso, udì i suoi genitori parlare di un nuovo progetto per il parco, che prevede anche il tuo abbattimento. Vogliono ricavare da quest’area un grande prato liscio e libero da ogni ostacolo, per farci, dicono, tantissime cose utili a tutti. Il piccolo scoppiò in pianto e poi, dopo inutili tentativi di consolazione da parte dei suoi genitori, si chiuse in sé stesso. Però ha cominciato a leggere, tanto, e non solo le storie di fantasia che già divorava con avidità; cercò di imparare quante più cose possibili sugli alberi. In particolare, cominciò a riconoscere le varie specie arboree chiamandole per nome, così scoprì che tu sei un Acero e, per la precisione, un Acero di Monte.»

«Non sapevo di essere proprio un Acero di Monte. Ma davvero ha fatto questo per me?»

«…Ha scoperto così che il tuo è un legno molto pregiato, e che gli umani lo usano per la costruzione di ottimi strumenti ad arco.»

«E questo cosa c’entra? Cosa vorresti dirmi?»

«C’entra eccome! Si dà il caso che il piccolo sia un promettente allievo della classe di violino di questa città e che suo nonno sia un liutaio. Quest’ultimo vive lontano da qui e si vedono raramente. Il nipote lo ha chiamato subito e gli ha spiegato il suo profondo desiderio: voleva solo salvarti la vita, facendo sì che almeno un albero, il Suo albero, non morisse per sempre. Il nonno lo ha ascoltato, come i nonni fanno con i nipoti e come sa fare chiunque sia abbastanza sensibile da riconoscere i sentimenti veri, urgenti e irrinunciabili. Fu quello il momento del primo abbraccio, la prima volta che accettò di uscire di casa che non fosse per andare a scuola.»

«Forse comincio a capire, ma non mi fa sentire meglio, anzi: mi stai dicendo che anch’io sarò abbattuto come tutti i miei amici… è terribile!»

«Sì, ma questo in fondo già lo sapevi: è nella natura di tutti gli esseri viventi nascere e poi morire, chi prima e chi dopo. L’importante è il senso che si è saputo trovare e dare alla propria vita prima di morire, se si è avuto abbastanza tempo per cercarlo, trovarlo e agire di conseguenza. Per gli umani, a dire il vero, è un po’ più difficile, perché diventando grandi devono resistere al rischio di imparare a fare come la maggior parte di quelli della loro specie che passano la loro vita procurando danni a loro stessi e alla natura. Gli altri animali e le piante sono molto meglio adattati e vivono naturalmente in armonia con il sistema che li circonda. Sono immuni all’orgoglio, e non è cosa da poco. E poi, è importante anche come si vive la morte. So che sembra un controsenso, ma non lo è affatto.»

«Ho paura… tanta paura…»

«Siamo tutti disarmati di fronte alla morte, non la conosciamo per niente. Eppure tutti la incontreremo, prima o poi, ed è la cosa che ci accomuna più di ogni altra.»

«Sì, va bene, ho capito che ci rende tutti uguali, ma la viviamo sempre da soli, ognuno per sé!»

«È vero, possiamo sentirci più o meno soli nell’andare incontro alla morte, e ciò non dipende dal fatto di avere qualcuno accanto, oppure no, quando succede. Intendo piuttosto: qualcuno ha mai pensato a noi con amore durante la nostra vita? Quel qualcuno c’è sempre! Per buona parte della tua vita, ad esempio, hai avuto i tuoi amici, ed essi, fino alla loro partenza, hanno avuto te. Siete stati bene e il tuo spirito non ha mai sofferto fino al momento in cui li ha persi. Poi è arrivato quell’abbraccio, che ha sanato il tuo dolore. Ma il tuo piccolo ti ha fatto un regalo ancora più speciale, usando i tre poteri più grandi che, già da un po’, ha tra le mani: l’amore, l’arte e la fantasia. Lui crede con tutto se stesso in questi tre poteri, e le cose accadono!»

«Dunque, ecco che sei arrivato tu. Ho capito?»

«Sì. Ma spetta sempre e comunque a te la scelta. Io sono stato voluto qui, e ora, per portarti con me a Feeria, la mia terra, che è il mondo dell’immaginazione. Il tuo spirito positivo continuerà comunque a vibrare nel tuo legno che, invece di essere sprecato, diventerà un violino lavorato dalle mani di un artista e sarà suonato dalle mani di un altro artista che ha voluto abbracciarti e non lasciarti solo nel momento della partenza, regalando alla tua anima un’eternità nel mondo di Feeria e, al tuo legno, l’eternità di uno strumento capace di esprimere e trasmettere emozioni nel mondo terreno.»

«Ho ancora paura, ma mi sento anche carico di amore per chi mi ha amato così tanto anche senza conoscermi: farò della musica stupenda, perché sarò all’unisono con la sua grande anima! Non avrei mai immaginato una partenza speciale come questa, e se ripenso ora alla mia vita, al tempo trascorso con i miei compagni e a quello che mi aspetta ora, è stata e sarà un vero capolavoro!»

Il tipo, che fino ad un secondo prima ronfava di gusto sull’amaca, cominciò a stiracchiarsi emettendo come dei miagolii. Poi scese piano dal suo giaciglio stando attento a non capitombolare a terra.

«Ah ma toglimi una curiosità, lui chi è?» chiese Ace.

«Oh scusa, hai ragione, non te l’ho ancora presentato: lui è il mio contadino, quello che mi ha tirato su da quando ero un germoglio. Quando ha saputo che sarei venuto nel mondo di qua ha voluto venire anche lui, per poter raccontare ai nipoti di essere stato anche qui. Non mi andava, ma alla fine ho ceduto. Mi sono fatto promettere che se ne sarebbe stato tranquillo a dormire per tutto il tempo, perché, a dirla tutta, è un po’ maldestro e grossolano (il vecchio gli lanciò un’occhiataccia), ma bisogna ammettere che è stato bravo dai!

«Dunque te ne vai? Ve ne state andando?»

«Noi no. Se ti va, ce ne stiamo andando!»

«È già il momento? …non vedo nessuno in arrivo.»

«Lo saranno tra poco, ma c’è un discreto viaggetto da fare ed è meglio che ci avvantaggiamo sui tempi. E poi, non vorrai perdere l’occasione di salutare i tuoi vecchi compari! Abbiamo invitato anche loro al banchetto di accoglienza! Ti ho già detto che a Feeria tutto è possibile?»

«Sono senza parole…»

«Non servono»

«Va bene, andiamo! Ehi, scusa…»

«Accidenti! Potresti cortesemente slegare l’amaca? O vuoi vederci inciampare e cadere per terra come due babbei??»

«Oh! …mmh…», mugugnò il vecchio.

«Grazie!»

«Grazie!»

Alessandro Navarin

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