
Forse era proprio quella la condizione ideale per farsi venire le idee migliori (e chi lo sa?), sta di fatto che solo in quel momento pensai di dedicare due dei quattro giorni di ferie d’ufficio ad un lungo giro in bici; anche volendo, infatti, sarebbe stato impossibile organizzare una qualsiasi pseudo-vacanza con gli amici considerato che la comunicazione delle suddette ferie mi era stata data con sole ventiquattr’ore di anticipo. A dire il vero, io odiavo andarmene in vacanza da solo, tuttavia non so come in quel momento, probabilmente a causa di uno strano effetto dei mirtilli sulle mia capacità di giudizio della realtà, quella mi sembrò improvvisamente una buona occasione per provare a superare questo mio limite.
Fu così che sull’onda di questo improvviso entusiasmo, prima che potessi tornare alle mie inutili paure cominciai a fantasticare sul nuovo progetto sapendo di non essere ne un ciclista allenato ne, tanto meno, di disporre di un credito illimitato. Dunque: «Perché prenotare da qualche parte? Ma no, via alla cieca! Un posto dove mangiare e dormire si trova sempre», mi dissi, anche se non era cosa da me. Ma fatto trenta, pensavo, potevo fare trentuno.
Zaino in spalla, poche provviste, qualche soldo, carta di credito e caricabatterie da viaggio. Destinazione: un parco regionale a qualche ora di distanza da casa mia, che, nonostante la relativa vicinanza, non avevo mai visitato. Montato in sella alle 7 del mattino, ridussi le soste al minimo. Per buona parte del tempo la mia vista si nutrì di argini, fiumi, ponti e campagne tra le quali sorgevano, sparsi qua e là, paesi e cittadine, ciascuno con il proprio santo protettore la cui rassicurante presenza si manifestava negli svettanti campanili.
Più o meno all’ora vespro stavo pedalando in un paesino il cui nome non l’avevo mai sentito. Poco prima, un cartello mi aveva segnalato di essere entrato nell’area del parco regionale, così avevo deciso che quel primo agglomerato urbano sarebbe stato un buon punto dove fermarsi per la notte. Sarei dunque ripartito il giorno dopo per le zone “incontaminate” alle quali avrei dedicato tutta la mattina per poi rientrare in serata. Si trattava di una modesta cittadina tagliata in due da un piccolo canale sul quale si allungavano numerosi ponti e ponticelli. In effetti per raggiungere l’area del parco regionale da qualunque direzione era necessario attraversare almeno un ponte (o fare almeno una nuotata, a seconda delle preferenze), perché si trovava nel bel mezzo della grande pianura polesana, una striscia di terra compresa tra i due principali fiumi che l’avevano originata. In queste zone non imbattersi in un corso d’acqua, grande o piccolo, era ed è impossibile. L’acqua infatti, oltre ad essere la madre di queste terre, nonché l’elemento grazie al quale vi si erano sviluppate una flora e una fauna di originale bellezza, rappresentava allo stesso tempo una delle principali fonti di reddito e uno dei principali rischi.
Percorrendo in bici, ma a passo d’uomo, le strade del paese, con gli occhi alla ricerca del posto giusto in cui fermarmi per chiedere informazioni, notai che a nessuno scappò (neanche per sbaglio) una qualche forma di saluto, un cenno del capo o una parola tipo “buonasera” o roba simile. Niente. Avrei volentieri pensato che stessi passando inosservato se non fosse stato che tutti mi guardavano e taluni addirittura mi seguivano con lo sguardo girandosi anche di centottanta gradi. Nonostante mi sentissi un tantino in soggezione, accettai il disagio come parte dell’esperienza, tanto lì nessuno mi conosceva e tanto meno attendeva il mio arrivo. Sarà il loro modo di studiare lo straniero, pensai, l'”osservazione silenziosa”.
Ad un tratto però, mentre stavo passando davanti ad un piccolo supermercato lungo un vicolo che portava in piazza, sentii chiamare il mio nome a gran voce. Con un brivido, dovuto un po’ all’idea di essere al centro dell’attenzione e un po’ al possibile rischio di fare una figuraccia se avessi risposto ad una chiamata rivolta ad un mio omonimo, mi voltai di scatto e riconobbi, istantaneamente, il volto più maturo di Gio, il mio storico compagno di banco delle elementari che, in quel momento, si sgolava e si sbracciava sul marciapiede.
«CIAO!! …e tu cosa ci fai qui?» esclamai sorridente prima che ci scambiassimo un abbraccio strettissimo.
«Io? Cosa ci fai tu qua! …e in bici poi! Ma, da dove vieni? Noi ci siamo trasferiti qua che stavo finendo la seconda media, ma noi due c’eravamo già persi di vista, mi sa…»
«É vero… e non ti ho più chiamato…»
«Neanch’io, ma è normale dai… quando si è due stronzi come noi, dico…»
«Ahahah!!! …Sì sono d’accordo, tu rimani sempre un esempio inarrivabile però…»
«Di simpatia?»
«No, di stronzeria! Manco sapevo che avevate traslocato… comunque ti vedo molto bene, davvero!», gli dissi, ed era vero.
«Grazie vecchio!»
«E i tuoi come stanno? Tutto bene?», ero molto legato anche ai suoi, al tempo.
«Beh, potresti chiederglielo di persona! Vieni a bere un caffè? Te lo offro volentieri, hai tempo?»
«In effetti sì, non ho programmi, sono venuto a fare un giro a mo’ di scampagnata in solitaria, per ritrovare me stesso… sai quel tipo di cose che si fanno quando non si ha di meglio da fare…»
«Weeeilàà!! Ma quanta ne è passata di acqua sotto i ponti… da quand’è che tu fai cose del genere? Grande!»
«Mah, in realtà da oggi! …nel senso, proprio, di oggi!»
«Ah ok! Ahah!!! Sei ancora tu allora, non mi preoccupo! No, a parte gli scherzi, io non mi sono mai sentito di fare una cosa del genere, ti ammiro, davvero! Allora dato che non hai programmi mi allargo e ti fermi per cena!!!»
«Cosa? Ma sei sicuro??»
«Ma scherzi? Sei mio ospite! I miei non avranno problemi, una persona in più non cambia nulla!! Dai, andiamo!»
«Che meraviglia! …grazie infinite!! Sono in debito…»
«Ma taci…»
«No, sul serio! Posso contribuire in qualche modo?»
«Sì con la tua presenza! Stai tranquillo.»
In effetti l’impressione non fu proprio che i suoi non aspettassero altro che una visita a sorpresa e, per di più, con invito a cena. Tuttavia parvero superare in fretta lo stupore e i primi istanti di panico per poi offrirmi una calorosa accoglienza.
«Non preoccuparti, i miei vanno sempre in ansia in questi casi. Ci vanno anche quando sono loro stessi a invitare qualcuno!», mi confidò poi Gio in salotto, «Ma sono felici che tu sia qui, di averti rivisto. Mia madre mi ha chiesto se secondo me ti è piaciuto quello che ha preparato, perché….»
Io lo rassicurai, la cena era stata un vero ristoro dopo la pedalata e averli rivisti mi aveva fatto davvero molto piacere. Prima di congedarmi, quando li ringraziai di persona, il padre di Gio mi chiese: «Ma aspetta, ora torni a casa? Hai un parente qua? Dove ti fermi a dormire?»
«Sì sì mi fermo in zona, pensavo al B&B vicino alla piazza, prima ho chiamato e mi hanno detto che di stanze libere ne hanno, quindi non mi ha prenotato, posso andare quando voglio… è stato gentilissimo.»
«Beh, non c’è la ressa in questo periodo in effetti…» fece sua madre, «ma se vuoi…»
«Già, se vuoi puoi fermarti a dormire da noi visto che non hai prenotato, che ne diresti?», concluse suo padre.
«Mah, non so se…»
«Il divano del salotto diventa un letto matrimoniale, non l’abbiamo ancora usato quindi daresti finalmente un senso all’acquisto…» aggiunse, lanciando una frecciatina alla moglie.
Lei, ricambiando l’occhiataccia, tagliò corto: «Insomma, a noi farebbe molto piacere! Sentiti a casa!»
Mi auto-convinsi a non fare lo snob e accettai: «Grazie infinite!»
Il divano letto era in effetti spazioso e comodissimo e, anche grazie alla stanchezza accumulata durante il giorno, mi addormentai all’istante.
La mattina seguente, uscito di casa dopo colazione, decisi che i saluti e i ringraziamenti non bastavano, così andai per negozi con l’intento di ricambiare l’ospitalità con qualcosa di commestibile.
Entrai quindi in un piccolo negozio di alimentari pensando che avrebbe fatto al caso mio. In effetti trovai subito quello che cercavo ma, nel mentre, accaddero una serie di eventi piuttosto bizzarri: prima una signora sulla sessantina mi ha urtato col carrello e poi se n’è andata lanciandomi un’occhiata furtiva ma senza dire una parola; poi un’altra, sui cinquanta, prima si era fermata dietro di me, trovando la via sbarrata, mentre stavo confrontando due prodotti, poi, giusto il tempo di accorgermi della sua presenza, aveva deciso di arretrare per cambiare percorso cominciando a borbottare ad alta voce con la sua amica riguardo alla «Gente che non ti lascia passare, robe da matti!.» Da ultimo, la ciliegina: mentre mi trovavo in coda per la cassa, un signore benvestito sui sessanta passò davanti a tutti, dritto alla meta, senza fare una piega.
Tornato da loro, mi chiesero di rimanere anche per pranzo ed io a quel punto, cambiato l’oggetto della gita da “scampagnata naturalistica” a “visita a un vecchio amico”, ci rimasi. Avevano preparato un menù di pesce, e impiattando il risotto sua madre mi chiese: «Anche tu vuoi che te ne lasci un po’ nella pentola?»
Vedendo il grosso punto interrogativo che si era disegnato sulla mia faccia, proseguì: «Vedi, quando c’è risotto o paella, il tuo amico Gio fin da quando era piccolo vuole che ne lasci un po’ nella pentola, così quando ha finito la sua porzione non è triste perché sa che ce n’è ancora un po’.»
«Davvero?», feci io guardandolo.
«Eh già…» confermò lui.
«Beh, forte! Non ci avevo pensato! Allora sì grazie, un po’ nella pentola anche per me.»
Nel frattempo lei però aveva alzato gli occhi verso la finestra.
«Ehi! …ma guarda che furbone di un paraculo!»
«…che c’è!?» le fece Gio.
«C’è un ragno che sta attaccato alla zanzariera, era lì fermo anche ieri e ora ho capito perché!.»
«Mamma, ma sei fuori?» replicò lui.
«Ma non capisci? Questo sta attaccato alla zanzariera così prende gli insetti che ci si appoggiano sopra, e in questo modo non deve neanche stare lì a fare la ragnatela! Hai capito?»
«Sì mamma, ho capito, tu sei fuori!»
«Ah… dici così ma te ne accorgerai presto di come va il mondo!»
Gio si rivolse a me: «Oh, cavolo, adesso attacca un pippone…»
In effetti, col cucchiaio in una mano e un piatto nell’altra, attaccò: «Quel ragno è l’emblema della società in cui viviamo, in cui stanno diventando tutti dei grandissimi paraculo! Il ragno approfitta della zanzariera per non farsi la tela, sarà meno appiccicosa ma qualcosa piglia lo stesso e lui si risparmia la fatica. In ufficio molti fanno solo il minimo indispensabile che gli è richiesto per prendere lo stipendio a fine mese; in negozio le persone ti passano davanti e manco ti chiedono “permesso” o “scusa”; tutti si lamentano alle spalle di tutti e nessuno ti dice le cose in faccia quando ha un problema con te. E sai che c’è? Che così non si risolverà mai nulla, sarà sempre tutto un borbottamento di fondo e tutti praticheranno lo sport dello “scarico delle responsabilità”!»
«Cosa?», fece il marito.
«Già! Come te che ti prendi una cosa da mangiare da una confezione solo se la confezione è già stata aperta da qualcun altro prima… non vuoi neanche la responsabilità di aprire tu una cosa nuova che hai tutto il diritto di aprire perché è già in casa! Per esempio.»
«Ovviamente ci finisco sempre in mezzo io…», disse rivolto a noi con un sorriso.
«Oh, povero lui, che non sia mai! Comunque il mio era solo un esempio…»
«In realtà erano quattro.» specificò Gio.
«…per dire che sempre meno persone sono disposte a prendersi delle responsabilità anche minime, e questo è un vero problema. Dove andremo a finire di questo passo? Voi ricordatevi sempre che sapersi prendere delle responsabilità, e imparare a gestire il senso di responsabilità, vi renderà delle persone affidabili e vi può aprire molte porte! Responsabilità significa anche saper mettere da parte l’orgoglio e saper chiedere aiuto quando si ha bisogno, saper accettare una mano da qualcuno, saper ricevere, sapersi scusare quando serve e saper fare un complimento o dire “grazie” quando qualcuno fa un buon lavoro e se lo merita! Ricordatevelo!»
Il risotto non era più caldissimo, ma comunque buonissimo.
Poco più di un’ora dopo, ringraziati e salutati affettuosamente con la promessa che ci saremo rivisti presto, stavo già pedalando sulla strada di casa.
Le parole della mamma di Gio, che lì per lì si sarebbero potute proprio dire un “pippone” come lo aveva definito lui, a dire il vero non erano cadute nel vuoto e mi si rimescolavano nella testa. Lo “sport dello scarico di responsabilità” era una cosa che effettivamente avevo notato in molti modi di fare e di dire della gente, ma non avevo mai riflettuto seriamente sul problema che lei invece aveva saputo descrivere in poche frasi. Sapersi scusare… saper dire “ho sbagliato”… in effetti non era molto di moda anche nella mia esperienza di vita, così come l’arte del “chiedere”.
In quell’istante, a proposito di questo, mi ricordai di un fatto che mi era capitato poco tempo prima: un giorno una donna col velo, che faceva assistenza alla sua piccola ricoverata in ospedale, mi ha chiesto di andarle a fare un po’ di spesa dato che non poteva muoversi da dov’era. Niente di speciale: una confezione di pane bianco, del succo di mela, qualche monoporzione di cioccolato spalmabile e un paio di altre cose che non ricordo. La sera quando le ho portato il sacchetto coi prodotti che mi aveva chiesto, oltre a rimborsarmi l’importo speso mi regalò un portachiavi del Marocco e un post-it con sopra scritto il mio nome in due lingue, italiano e arabo. Onorato, l’ho ringraziata moltissimo e, pochi giorni dopo, le ho inviato su whatsapp la foto del suddetto post-it messo in cornice ed esposto sopra una mensola, davanti a dei libri, nella stanza dei pensieri e della musica, una stanza speciale di casa mia. Al ricevere la foto, mi disse di esserne molto felice ed io capii di essere riuscito ad esprimerle tutta la gratitudine che sentivo.
Solo in quel momento, solo rivedendo quell’episodio alla luce delle mie riflessioni sul discorso della mamma di Gio, ero riuscito a rivestire la richiesta di una persona che mi conosceva a malapena di un valore diverso: pensai che a volte una domanda è come una magia, fa accadere cose inaspettate e straordinarie; al contrario, una domanda non fatta, magari per paura o per orgoglio, può fare di un problema un ostacolo insormontabile.
Prima di entrare in casa, dato che era sera tardi decisi di concedermi un’altra piccola libertà: stendermi sull’erba del giardino con una coperta e starmene lì per un po’ a guardare le stelle.
A quell’immagine profonda e infinita, a quei fuochi lontani, affidai il coraggio e l’iniziativa di quella scampagnata, quell’inaspettato e piacevolissimo incontro, il gusto squisito del cibo e dell’ospitalità che mi erano stati offerti, il senso di benessere di quel momento, la stanchezza della pedalata e, in particolare, le riflessioni sulla paura, sull’orgoglio e sulla responsabilità. Pensai che quell’esperienza piccola mi aveva in realtà lasciato tanto, e che quel tanto mi piaceva troppo per rischiare di perderlo.
Così, qualora in futuro fossi finito col comportarmi da egoista o da “paraculo”, magari per paura, mi sarei rivolto di nuovo a quell’immagine, per sentire di nuovo la sensazione che stavo provando in quel momento. E per chiedere memoria, e consiglio, alle stelle.

Alessandro Navarin