Appunti di esperienze infermieristiche e umane fatte nei primi mesi di vita lavorativa hanno preso via via la forma di un breve percorso, attraverso il quale il lettore conosce (o rivive) la vita e la morte, con il ruolo di chi, assistendo per professione e, soprattutto, per passione, si rende conto del valore incalcolabile di quanto riceve da coloro ai quali è chiamato a dare aiuto e dignità. È dunque un grazie agli eroi sconosciuti che, prima o poi, nel corso della nostra vita, siamo tutti chiamati ad essere, introdotto da un personale elogio dell’“arte dell’assistenza” che vuol essere la dichiarazione d’amore per un ruolo che, agito per professione o meno, deve essere, secondo l’autore, fiero di sé.
Forse era proprio quella la condizione ideale per farsi venire le idee migliori (e chi lo sa?), sta di fatto che solo in quel momento pensai di dedicare due dei quattro giorni di ferie d’ufficio ad un lungo giro in bici; anche volendo, infatti, sarebbe stato impossibile organizzare una qualsiasi pseudo-vacanza con gli amici considerato che la comunicazione delle suddette ferie mi era stata data con sole ventiquattr’ore di anticipo. A dire il vero, io odiavo andarmene in vacanza da solo, tuttavia non so come in quel momento, probabilmente a causa di uno strano effetto dei mirtilli sulle mia capacità di giudizio della realtà, quella mi sembrò improvvisamente una buona occasione per provare a superare questo mio limite.
Fu così che sull’onda di questo improvviso entusiasmo, prima che potessi tornare alle mie inutili paure cominciai a fantasticare sul nuovo progetto sapendo di non essere ne un ciclista allenato ne, tanto meno, di disporre di un credito illimitato. Dunque: «Perché prenotare da qualche parte? Ma no, via alla cieca! Un posto dove mangiare e dormire si trova sempre», mi dissi, anche se non era cosa da me. Ma fatto trenta, pensavo, potevo fare trentuno.
Zaino in spalla, poche provviste, qualche soldo, carta di credito e caricabatterie da viaggio. Destinazione: un parco regionale a qualche ora di distanza da casa mia, che, nonostante la relativa vicinanza, non avevo mai visitato. Montato in sella alle 7 del mattino, ridussi le soste al minimo. Per buona parte del tempo la mia vista si nutrì di argini, fiumi, ponti e campagne tra le quali sorgevano, sparsi qua e là, paesi e cittadine, ciascuno con il proprio santo protettore la cui rassicurante presenza si manifestava negli svettanti campanili.
Più o meno all’ora vespro stavo pedalando in un paesino il cui nome non l’avevo mai sentito. Poco prima, un cartello mi aveva segnalato di essere entrato nell’area del parco regionale, così avevo deciso che quel primo agglomerato urbano sarebbe stato un buon punto dove fermarsi per la notte. Sarei dunque ripartito il giorno dopo per le zone “incontaminate” alle quali avrei dedicato tutta la mattina per poi rientrare in serata. Si trattava di una modesta cittadina tagliata in due da un piccolo canale sul quale si allungavano numerosi ponti e ponticelli. In effetti per raggiungere l’area del parco regionale da qualunque direzione era necessario attraversare almeno un ponte (o fare almeno una nuotata, a seconda delle preferenze), perché si trovava nel bel mezzo della grande pianura polesana, una striscia di terra compresa tra i due principali fiumi che l’avevano originata. In queste zone non imbattersi in un corso d’acqua, grande o piccolo, era ed è impossibile. L’acqua infatti, oltre ad essere la madre di queste terre, nonché l’elemento grazie al quale vi si erano sviluppate una flora e una fauna di originale bellezza, rappresentava allo stesso tempo una delle principali fonti di reddito e uno dei principali rischi.
Percorrendo in bici, ma a passo d’uomo, le strade del paese, con gli occhi alla ricerca del posto giusto in cui fermarmi per chiedere informazioni, notai che a nessuno scappò (neanche per sbaglio) una qualche forma di saluto, un cenno del capo o una parola tipo “buonasera” o roba simile. Niente. Avrei volentieri pensato che stessi passando inosservato se non fosse stato che tutti mi guardavano e taluni addirittura mi seguivano con lo sguardo girandosi anche di centottanta gradi. Nonostante mi sentissi un tantino in soggezione, accettai il disagio come parte dell’esperienza, tanto lì nessuno mi conosceva e tanto meno attendeva il mio arrivo. Sarà il loro modo di studiare lo straniero, pensai, l'”osservazione silenziosa”.
Ad un tratto però, mentre stavo passando davanti ad un piccolo supermercato lungo un vicolo che portava in piazza, sentii chiamare il mio nome a gran voce. Con un brivido, dovuto un po’ all’idea di essere al centro dell’attenzione e un po’ al possibile rischio di fare una figuraccia se avessi risposto ad una chiamata rivolta ad un mio omonimo, mi voltai di scatto e riconobbi, istantaneamente, il volto più maturo di Gio, il mio storico compagno di banco delle elementari che, in quel momento, si sgolava e si sbracciava sul marciapiede.
«CIAO!! …e tu cosa ci fai qui?» esclamai sorridente prima che ci scambiassimo un abbraccio strettissimo.
«Io? Cosa ci fai tu qua! …e in bici poi! Ma, da dove vieni? Noi ci siamo trasferiti qua che stavo finendo la seconda media, ma noi due c’eravamo già persi di vista, mi sa…»
«É vero… e non ti ho più chiamato…»
«Neanch’io, ma è normale dai… quando si è due stronzi come noi, dico…»
«Ahahah!!! …Sì sono d’accordo, tu rimani sempre un esempio inarrivabile però…»
«Di simpatia?»
«No, di stronzeria! Manco sapevo che avevate traslocato… comunque ti vedo molto bene, davvero!», gli dissi, ed era vero.
«Grazie vecchio!»
«E i tuoi come stanno? Tutto bene?», ero molto legato anche ai suoi, al tempo.
«Beh, potresti chiederglielo di persona! Vieni a bere un caffè? Te lo offro volentieri, hai tempo?»
«In effetti sì, non ho programmi, sono venuto a fare un giro a mo’ di scampagnata in solitaria, per ritrovare me stesso… sai quel tipo di cose che si fanno quando non si ha di meglio da fare…»
«Weeeilàà!! Ma quanta ne è passata di acqua sotto i ponti… da quand’è che tu fai cose del genere? Grande!»
«Mah, in realtà da oggi! …nel senso, proprio, di oggi!»
«Ah ok! Ahah!!! Sei ancora tu allora, non mi preoccupo! No, a parte gli scherzi, io non mi sono mai sentito di fare una cosa del genere, ti ammiro, davvero! Allora dato che non hai programmi mi allargo e ti fermi per cena!!!»
«Cosa? Ma sei sicuro??»
«Ma scherzi? Sei mio ospite! I miei non avranno problemi, una persona in più non cambia nulla!! Dai, andiamo!»
«Che meraviglia! …grazie infinite!! Sono in debito…»
«Ma taci…»
«No, sul serio! Posso contribuire in qualche modo?»
«Sì con la tua presenza! Stai tranquillo.»
In effetti l’impressione non fu proprio che i suoi non aspettassero altro che una visita a sorpresa e, per di più, con invito a cena. Tuttavia parvero superare in fretta lo stupore e i primi istanti di panico per poi offrirmi una calorosa accoglienza.
«Non preoccuparti, i miei vanno sempre in ansia in questi casi. Ci vanno anche quando sono loro stessi a invitare qualcuno!», mi confidò poi Gio in salotto, «Ma sono felici che tu sia qui, di averti rivisto. Mia madre mi ha chiesto se secondo me ti è piaciuto quello che ha preparato, perché….»
Io lo rassicurai, la cena era stata un vero ristoro dopo la pedalata e averli rivisti mi aveva fatto davvero molto piacere. Prima di congedarmi, quando li ringraziai di persona, il padre di Gio mi chiese: «Ma aspetta, ora torni a casa? Hai un parente qua? Dove ti fermi a dormire?»
«Sì sì mi fermo in zona, pensavo al B&B vicino alla piazza, prima ho chiamato e mi hanno detto che di stanze libere ne hanno, quindi non mi ha prenotato, posso andare quando voglio… è stato gentilissimo.»
«Beh, non c’è la ressa in questo periodo in effetti…» fece sua madre, «ma se vuoi…»
«Già, se vuoi puoi fermarti a dormire da noi visto che non hai prenotato, che ne diresti?», concluse suo padre.
«Mah, non so se…»
«Il divano del salotto diventa un letto matrimoniale, non l’abbiamo ancora usato quindi daresti finalmente un senso all’acquisto…» aggiunse, lanciando una frecciatina alla moglie.
Lei, ricambiando l’occhiataccia, tagliò corto: «Insomma, a noi farebbe molto piacere! Sentiti a casa!»
Mi auto-convinsi a non fare lo snob e accettai: «Grazie infinite!»
Il divano letto era in effetti spazioso e comodissimo e, anche grazie alla stanchezza accumulata durante il giorno, mi addormentai all’istante.
La mattina seguente, uscito di casa dopo colazione, decisi che i saluti e i ringraziamenti non bastavano, così andai per negozi con l’intento di ricambiare l’ospitalità con qualcosa di commestibile.
Entrai quindi in un piccolo negozio di alimentari pensando che avrebbe fatto al caso mio. In effetti trovai subito quello che cercavo ma, nel mentre, accaddero una serie di eventi piuttosto bizzarri: prima una signora sulla sessantina mi ha urtato col carrello e poi se n’è andata lanciandomi un’occhiata furtiva ma senza dire una parola; poi un’altra, sui cinquanta, prima si era fermata dietro di me, trovando la via sbarrata, mentre stavo confrontando due prodotti, poi, giusto il tempo di accorgermi della sua presenza, aveva deciso di arretrare per cambiare percorso cominciando a borbottare ad alta voce con la sua amica riguardo alla «Gente che non ti lascia passare, robe da matti!.» Da ultimo, la ciliegina: mentre mi trovavo in coda per la cassa, un signore benvestito sui sessanta passò davanti a tutti, dritto alla meta, senza fare una piega.
Tornato da loro, mi chiesero di rimanere anche per pranzo ed io a quel punto, cambiato l’oggetto della gita da “scampagnata naturalistica” a “visita a un vecchio amico”, ci rimasi. Avevano preparato un menù di pesce, e impiattando il risotto sua madre mi chiese: «Anche tu vuoi che te ne lasci un po’ nella pentola?»
Vedendo il grosso punto interrogativo che si era disegnato sulla mia faccia, proseguì: «Vedi, quando c’è risotto o paella, il tuo amico Gio fin da quando era piccolo vuole che ne lasci un po’ nella pentola, così quando ha finito la sua porzione non è triste perché sa che ce n’è ancora un po’.»
«Davvero?», feci io guardandolo.
«Eh già…» confermò lui.
«Beh, forte! Non ci avevo pensato! Allora sì grazie, un po’ nella pentola anche per me.»
Nel frattempo lei però aveva alzato gli occhi verso la finestra.
«Ehi! …ma guarda che furbone di un paraculo!»
«…che c’è!?» le fece Gio.
«C’è un ragno che sta attaccato alla zanzariera, era lì fermo anche ieri e ora ho capito perché!.»
«Mamma, ma sei fuori?» replicò lui.
«Ma non capisci? Questo sta attaccato alla zanzariera così prende gli insetti che ci si appoggiano sopra, e in questo modo non deve neanche stare lì a fare la ragnatela! Hai capito?»
«Sì mamma, ho capito, tu sei fuori!»
«Ah… dici così ma te ne accorgerai presto di come va il mondo!»
Gio si rivolse a me: «Oh, cavolo, adesso attacca un pippone…»
In effetti, col cucchiaio in una mano e un piatto nell’altra, attaccò: «Quel ragno è l’emblema della società in cui viviamo, in cui stanno diventando tutti dei grandissimi paraculo! Il ragno approfitta della zanzariera per non farsi la tela, sarà meno appiccicosa ma qualcosa piglia lo stesso e lui si risparmia la fatica. In ufficio molti fanno solo il minimo indispensabile che gli è richiesto per prendere lo stipendio a fine mese; in negozio le persone ti passano davanti e manco ti chiedono “permesso” o “scusa”; tutti si lamentano alle spalle di tutti e nessuno ti dice le cose in faccia quando ha un problema con te. E sai che c’è? Che così non si risolverà mai nulla, sarà sempre tutto un borbottamento di fondo e tutti praticheranno lo sport dello “scarico delle responsabilità”!»
«Cosa?», fece il marito.
«Già! Come te che ti prendi una cosa da mangiare da una confezione solo se la confezione è già stata aperta da qualcun altro prima… non vuoi neanche la responsabilità di aprire tu una cosa nuova che hai tutto il diritto di aprire perché è già in casa! Per esempio.»
«Ovviamente ci finisco sempre in mezzo io…», disse rivolto a noi con un sorriso.
«Oh, povero lui, che non sia mai! Comunque il mio era solo un esempio…»
«In realtà erano quattro.» specificò Gio.
«…per dire che sempre meno persone sono disposte a prendersi delle responsabilità anche minime, e questo è un vero problema. Dove andremo a finire di questo passo? Voi ricordatevi sempre che sapersi prendere delle responsabilità, e imparare a gestire il senso di responsabilità, vi renderà delle persone affidabili e vi può aprire molte porte! Responsabilità significa anche saper mettere da parte l’orgoglio e saper chiedere aiuto quando si ha bisogno, saper accettare una mano da qualcuno, saper ricevere, sapersi scusare quando serve e saper fare un complimento o dire “grazie” quando qualcuno fa un buon lavoro e se lo merita! Ricordatevelo!»
Il risotto non era più caldissimo, ma comunque buonissimo.
Poco più di un’ora dopo, ringraziati e salutati affettuosamente con la promessa che ci saremo rivisti presto, stavo già pedalando sulla strada di casa.
Le parole della mamma di Gio, che lì per lì si sarebbero potute proprio dire un “pippone” come lo aveva definito lui, a dire il vero non erano cadute nel vuoto e mi si rimescolavano nella testa. Lo “sport dello scarico di responsabilità” era una cosa che effettivamente avevo notato in molti modi di fare e di dire della gente, ma non avevo mai riflettuto seriamente sul problema che lei invece aveva saputo descrivere in poche frasi. Sapersi scusare… saper dire “ho sbagliato”… in effetti non era molto di moda anche nella mia esperienza di vita, così come l’arte del “chiedere”.
In quell’istante, a proposito di questo, mi ricordai di un fatto che mi era capitato poco tempo prima: un giorno una donna col velo, che faceva assistenza alla sua piccola ricoverata in ospedale, mi ha chiesto di andarle a fare un po’ di spesa dato che non poteva muoversi da dov’era. Niente di speciale: una confezione di pane bianco, del succo di mela, qualche monoporzione di cioccolato spalmabile e un paio di altre cose che non ricordo. La sera quando le ho portato il sacchetto coi prodotti che mi aveva chiesto, oltre a rimborsarmi l’importo speso mi regalò un portachiavi del Marocco e un post-it con sopra scritto il mio nome in due lingue, italiano e arabo. Onorato, l’ho ringraziata moltissimo e, pochi giorni dopo, le ho inviato su whatsapp la foto del suddetto post-it messo in cornice ed esposto sopra una mensola, davanti a dei libri, nella stanza dei pensieri e della musica, una stanza speciale di casa mia. Al ricevere la foto, mi disse di esserne molto felice ed io capii di essere riuscito ad esprimerle tutta la gratitudine che sentivo.
Solo in quel momento, solo rivedendo quell’episodio alla luce delle mie riflessioni sul discorso della mamma di Gio, ero riuscito a rivestire la richiesta di una persona che mi conosceva a malapena di un valore diverso: pensai che a volte una domanda è come una magia, fa accadere cose inaspettate e straordinarie; al contrario, una domanda non fatta, magari per paura o per orgoglio, può fare di un problema un ostacolo insormontabile.
Prima di entrare in casa, dato che era sera tardi decisi di concedermi un’altra piccola libertà: stendermi sull’erba del giardino con una coperta e starmene lì per un po’ a guardare le stelle.
A quell’immagine profonda e infinita, a quei fuochi lontani, affidai il coraggio e l’iniziativa di quella scampagnata, quell’inaspettato e piacevolissimo incontro, il gusto squisito del cibo e dell’ospitalità che mi erano stati offerti, il senso di benessere di quel momento, la stanchezza della pedalata e, in particolare, le riflessioni sulla paura, sull’orgoglio e sulla responsabilità. Pensai che quell’esperienza piccola mi aveva in realtà lasciato tanto, e che quel tanto mi piaceva troppo per rischiare di perderlo.
Così, qualora in futuro fossi finito col comportarmi da egoista o da “paraculo”, magari per paura, mi sarei rivolto di nuovo a quell’immagine, per sentire di nuovo la sensazione che stavo provando in quel momento. E per chiedere memoria, e consiglio, alle stelle.
C’era una volta un pappagallo che, a detta di tutti, era stato baciato dalla fortuna. Tutto è cominciato quando il Re e la Regina lo acquistarono come regalo di compleanno per il loro cucciolo, il principino Giovanni: da quel momento, al pennuto furono assegnati niente meno che un servo, per curarne la salute e il decoro, e un addestratore per insegnargli il linguaggio degli umani. Pare infatti che il Cenerino, in particolare, si distingua tra i pappagalli come il miglior imitatore e oratore, e che possa addirittura imparare a rispondere alle domande con frasi di senso compiuto. Lo chiamarono Anacleto.
Oltre ad essere fortunato, ovviamente, era anche incredibilmente bello, tanto che tutti gli ospiti illustri che si recavano a far visita ai regnanti si fermavano ad ammirarne il meraviglioso piumaggio sulle sfumature del blu (tra l’altro in perfetto contrasto con la lucente gabbia dorata) e si dilungavano poi in elogi e complimenti.
Poiché il Re era molto ricco ed aveva potere su un territorio proprio vasto, feste e ricevimenti erano all’ordine del giorno. Nonostante ciò Giovanni non aveva molti amici, e neanche la scuola poteva dargli occasione di conoscere qualcuno dato che aveva sempre studiato a casa con maestri privati.
Fin dai primi momenti passò quindi un sacco di tempo con il suo Anacleto, tenendolo vicino anche quando studiava, leggeva e si ripeteva le cose ad alta voce. In questo modo, pensava, il suo amico avrebbe imparato a parlare ancora prima di quando l’addestratore aveva previsto. Non vedeva l’ora di scambiare qualche parola con Anacleto anche perché, a parte gli insegnanti, nessuno in casa sembrava avere mai il tempo di dargli retta: sua madre e suo padre erano sempre troppo indaffarati e, nelle rare occasioni in cui erano insieme, gli parlavano solo di proprietà, ricevimenti e politica. I regali non mancavano certo, ma quello che gli girava per la testa, i dubbi, le paure, le curiosità ed i suoi sogni segreti sembravano non interessare a nessuno.
Di anno in anno, il principino divenne prima un adolescente dal cuore ribelle e poi un giovane adulto in preda agli sbalzi d’umore e alla nevrosi, proprietario di un’ala dello sfarzoso palazzo; Anacleto invece, nella sua nuova gabbia d’oro più lunga, più larga e più alta, non aveva ancora detto neanche una parola e nessuno si spiegava il perché.
Un giorno l’addestratore fu licenziato e il principe, in collera con il volatile, lo restituì ai genitori facendosi promettere che non lo avrebbe mai più rivisto. Questi posizionarono allora la gabbia nella sala dei ricevimenti e degli incontri diplomatici, così che potesse fare da ornamento con la sua bella e silenziosa presenza dato che altra utilità sembrava non potesse avere. Era la sala in cui si discuteva, appunto, di politica nazionale ed internazionale, i cui piani riguardavano essenzialmente la conquista di nuovi territori, le guerre e le eventuali azioni di repressione.
Quando il principino divenne a tutti gli effetti un principe, raggiungendo la maggiore età (e anche qualcosa in più), il Re e la Regina decisero di provare a dare fiducia a quel giovane figlio con il quale era diventato così difficile comunicare, e lo coinvolsero nella politica del regno. Si riproposero valutare per un certo periodo il modo di porsi dell’erede di fronte alle problematiche legate al mantenimento del potere della famiglia, per poi decidere se sarebbe stato in effetti degno del trono oppure se sarebbe stato meglio garantirgli per sempre una vita agiata e spensierata ed affidare le questioni politiche a persone esterne.
Giovanni cominciò così a partecipare a tutti gli incontri diplomatici rimanendo, inizialmente, un osservatore silenzioso. A un certo punto però, capendo meglio gli argomenti trattati e intravedendo la possibilità di acquisire molto potere in futuro, cominciò a interessarsi e ad intervenire nelle discussioni.
Una sera si discuteva di un problema che da qualche tempo si era ingigantito e stava rischiando di mettere a rischio la tenuta del patrimonio di famiglia: molti cittadini e agricoltori non pagavano le tasse, in parte o del tutto, e tutti gli interventi intimidatori e ricattatori adottati fino a quel momento, come la prigione, lo sfratto o il sequestro di beni, non sembravano capaci di arginare la situazione. Fu proprio in questa occasione che il principe prese la parola, con decisione, per esporre la propria (a suo dire brillante) idea:
«Signori, io dico che stiamo sbagliando tutto: credo infatti che il nostro concetto di dominio sia oramai obsoleto, in quanto limitato ai soli beni materiali, ai terreni, ai soldi. Noi siamo dotati di un’intelligenza superiore, come dimostra il tempo immemore da cui persiste il potere della mia famiglia. Ora dobbiamo ampliare i nostri concetti di potere e di proprietà, allargarli affinché comprendano tutto ciò che è davvero fondamentale nella vita: che cosa intendo?
Sto parlando del sole, dell’acqua e dell’ossigeno che è contenuto nell’aria, i quali permettono all’uomo di sopravvivere. Queste cose, che la natura mette a disposizione di tutti, possono essere solo nostre e possiamo toglierle a chiunque non accetti il nostro potere e non rispetti gli obblighi da noi stabiliti.»
Gli uditori rimasero in silenzio per un po’ dopo le parole che il giovane aveva appena declamato. Non potevano credere che si sarebbe spinto a tanto, non si aspettavano una tale durezza. Non sapevano se applaudire o provare a farlo ragionare.
Dopo una decina di secondi, però, qualcuno parlò:
«S T O L T I !», disse la voce del principe.
Ma lui, Giovanni, non aveva aperto bocca.
Nella sala il clima già teso divenne glaciale. Nessuno sembrava aver capito, ma molti si voltarono tremanti verso la gabbia d’oro dalla quale Anacleto li osservava dal trespolo più alto.
Laura Ometto
«Non capite, e mai imparerete dai vostri stessi errori. Continuerete a ripeterli per sempre, dall’alto della vostra intelligenza. La natura vi ha regalato questa dote, ma non la sapete usare che contro voi stessi» continuò l’animale.
Il principe, basito come gli altri, sgranava gli occhi impressionato dal fatto che fosse la sua stessa voce a parlare.
«La storia si ripete», proseguì, «e voi umani volete sempre andare oltre, superarvi, imporre voi stessi sopra ad altri voi stessi, senza capire che se non date un limite a quello che volete avere oggi, non ce ne sarà più per domani. Anzi, non ci sarà nemmeno un domani! La natura insegna, e voi dovete ascoltarla! Volete appropriarvi di ogni sua bellezza ed io ne sono la dimostrazione, come lo sono i mobili intarsiati, fatti di centinaia di legni diversi, di cui siete circondati.
Bellezza rubata e messa a vostra disposizione, vostra e di nessun altro, per darvi ogni giorno l’illusione di essere superiori ad altri della vostra specie. Non è sbagliato possedere, ma è sbagliato possedere per il solo gusto di farlo, senza condividere. La natura ha messo queste cose a disposizione di tutti, e voi ve ne siete appropriati senza diritto.
Ora l’acqua, il sole, addirittura l’ossigeno: più volte nella storia sono stati fatti dominio di qualcuno e sottratti ad altre persone.
Ma la natura, fin da prima che l’uomo esistesse, ha fatto sì che ciascun essere vivente, animale o vegetale, potesse disporre per tutta la sua vita di ciascuno di questi elementi fondamentali solo nella giusta misura in cui il proprio organismo ne ha bisogno.
Non potreste respirare più ossigeno di quanto ne ispirate di volta in volta, come le piante non possono prendere più sole di quello di cui necessitano; se di acqua ne accumulate in eccesso, vi farà male. È questo il meccanismo della natura, e solo in questo modo le risorse sono di tutti. A nessuno degli organismi naturali, che rispettano questa regola fondamentale, manca qualcosa. Voi umani invece vi scannate per inseguire l’illusione di poter vivere meglio; ma è un benessere momentaneo, e quello che sottraete ad altri oggi, un giorno finirà per tutti, anche per voi stessi.
Le risorse essenziali per la vita, così come la bellezza di cui gli occhi e tutti i sensi hanno bisogno di nutrirsi ogni giorno, perché siano tali non si possono possedere che nella quantità giusta in ogni istante. Ne più, ne meno. Altrimenti scegliete il male, anche per voi!» E dopo qualche secondo concluse: «Poi non dite che non ve l’avevo detto!»
“Tutto è determinato da forze sulle quali non abbiamo alcun controllo. Vale per l’insetto come per gli astri. Esseri umani, vegetali o polvere cosmica, tutti danziamo al ritmo di una musica misteriosa, suonata in lontananza da un pifferaio invisibile.
Albert Eistein
Parcheggiata la macchina nel garage, avevo deciso di rimanerci ancora qualche minuto per ascoltarmi la canzone fino alla fine. A motore spento, trovavo che l’abitacolo fosse un luogo magico in cui cantare a squarciagola o semplicemente lasciarsi coccolare da una miscela di ritmo e armonia.
Dalle chiavi ancora infilate nel quadrante, dondolavano i miei tre portachiavi preferiti: una medaglietta con la raffigurazione del Divino Niño, un’altra con tre soggetti tratti da “Alice nel paese delle meraviglie” e un souvenir marocchino a forma di nimcha. Sono tre doni inattesi ricevuti in tre momenti diversi della mia vita: il primo è stato il ringraziamento da parte di una paziente che di lì a poco sarebbe tornata a casa in Venezuela per festeggiare la tanto sudata guarigione; il secondo il ringraziamento di una delle mie migliori amiche per alcune medicazioni alla gamba; il terzo, invece, il grazie per una commissione al supermercato, svolta prima di montare in turno di notte, da parte della mamma di una paziente ricoverata. Io non sono superstizioso, tuttavia considero ciascuno di questi tre oggetti come un portafortuna straordinario perché proveniente da un mio “angelo custode terreno”.
Questa è, per me, la traduzione in concreto del concetto di fortuna.
L’annosa questione dei portafortuna, purtroppo strettamente legata a quella dei porta-iella, non si risolverà mai, esattamente come quella del cibo che fa bene e di quello che fa male, dei segreti per campare fino a cent’anni e di quelli per vivere per sempre felici e contenti.
Francesco Guccini potrebbe portare gli esempi del matto che rise a crepapelle fino alla fine, o di quello che “in preda a pensieri lubrichi, andò sotto un camion di fichi”.
A volte le cose per le quali ci riteniamo fortunati sono quelle che ci procurano più danno, e allo stesso modo quelle che chiamiamo sfortune nascondono tesori preziosissimi.
Credo comunque che a stare tranquilli perché ci si sente fortunati o a stare in ansia perché ci si sente terribilmente sfortunati…beh, si sbagli in ogni caso.
A questo proposito mi sovviene la storia di Armido, un uomo sui quaranta durante le sue giornate che soleva lamentarsi sempre di tutto. Sosteneva per esempio di non essere abbastanza bello, o abbastanza ricco, di non piacere a nessuno e che addirittura la gatta di sua sorella, che solitamente era coccolona con tutti, non se lo filava di striscio.
Conduceva la sua vita in solitudine, con un lavoro, una casa, un’auto e qualche spicciolo in banca. La quotidianità lo annoiava e ogni volta che qualcuno gli chiedeva “Come va?” lui rispondeva “Tiriamo avanti”.
Con la sorella, la padrona della suddetta gatta, quando si vedevano o si sentivano al telefono andava d’accordo per qualche minuto poi solitamente litigavano per un futile motivo. Nonostante ciò lei, pur non abitando troppo lontano da lui, lo chiamava ogni due o tre giorni e andava anche a trovarlo piuttosto spesso. Lei gli voleva molto bene; lui, dal canto suo, pensava che lei fosse molto fortunata ad avere un lavoro, una casa, un’auto, il dannato gatto, una famiglia e molti amici, e che un po’ di quella fortuna se la sarebbe meritata anche lui. Invece niente… era la vita, pensava.
Un giorno, mentre attraversava i giardinetti andando a fare la spesa, una scena catturò per qualche secondo la sua attenzione: un bambino stava giocando con un aeroplanino di plastica tenendolo in alto con la mano e correndo per farlo volteggiare in aria come una freccia in parata mentre con la bocca ne riproduceva il rombo dei motori. Ad un tratto il bimbo, distratto dalla presenza di un altro uomo anziano che passava di lì, si fermò e si voltò verso di lui esclamando:
«Ciao!»
«Ciao!», rispose questi sorridendo, «Che bell’aeroplano!» aggiunse.
«Sì, ma è finto…» specificò il piccolo, lanciando un’occhiata al papà a pochi passi da lui.
«Non se n’era accorto il signore!» fece quest’ultimo rivolto al bambino, ammiccando all’anziano.
«No, non me n’ero accorto infatti!» disse il vecchio continuando a guardare il piccolo, «perché, guidato da te, pare proprio un vero aeroplano! Altroché finto…»
Il papà parve non afferrare, ma il piccolo fu pronto: «Infatti è vero!», e ricominciò a pilotarlo come stava facendo.
Poi l’uomo si rivolse al padre del bimbo, «Se lo tiene in mano uno di noi due è solo un aeroplanino di plastica, ma se lo pilota lui è un vero aeroplano! Anche i miei aeroplani di legno, quando ci giocavo da piccolo, erano veri. Accidenti se lo erano! Buona giornata, arrivederci!»
Salutò con l’occhiolino quel giovane padre che continuava a guardarlo un poco stupito, e proseguì per la sua strada. Così fece allora anche Armido, affrettando un po’ il passo verso il supermercato.
La sera, quando la sorella venne inaspettatamente a fargli visita portando con sé una doppia porzione della torta che aveva appena fatto per provare una nuova ricetta, ancora ci stava pensando.
«Che c’è?» fece lei, appoggiando distrattamente l’incartamento incellofanato sul tavolo del soggiorno «Hai una faccia, tutto ben… oh cavolo!»
Quella mattina prendendosi i pantaloni dall’armadio aveva spezzato senza volere la gruccia in plastica dalla quale pendevano, lisci di stiratura. Gli era già successa una cosa simile da piccolo, prima di un compito a scuola, e gli aveva procurato un bel 4 sul registro. Siccome non era ancora successo nulla di strano durante il dì appena trascorso, era chiaro che la tragedia si sarebbe consumata nel dopo cena: l’arrivo della sorella, a sorpresa, non poteva che esserne il preludio.
“Eccola lo sapevo! Eh ti pareva…”, disse lui tra sé.
Laura Ometto
«Scusami… non l’avevo visto, ma anche tu ad appoggiare la tazza di camomilla sul bordo del tavolo devi essere proprio un genio! Poi una di questo servizio che sembrano fatte apposta per cadere…»
«Sì, ed è per quello che me le hai rifilate, vero??» replicò lui, pronto e tronfio.
«Ah! Rifilate?! Non volevo buttarle perché, come ben sai, sono di nostra madre ed io non posso certo usarle a casa mia con i bambini e con Pallina che ogni tre per due sale sulla tavola per cercare sgraffignare qualcosa. Oramai non ne sarebbe rimasta neanche mezza di quelle tazzine.»
«Pallina… dovresti chiamarla Pallona quella salama da sugo!»
«Ehi! Non azzardarti mai più e smettila di essere così acido, faresti venire la bile anche ai santi! Sai cosa ti dico, che ti avevo portato la torta e invece, come l’ho portata, me la riporto anche a casa.»
«E la camomilla che hai rovesciato chi la pulisce?» fece lui con aria beffarda.
«Tu, così ti sfoghi per bene, iena!»
«Oh, che signora…»
«E buonanotte!» concluse lei sbattendo la porta.
La mente ancora un po’ confusa dalla scena a cui aveva assistito al parco e da un’infinitesimale riflessione autocritica sul suo modo così brusco di trattare le persone, non lo fecero riposare bene. Lo sapeva benissimo che scaricava sugli altri l’insoddisfazione per la sua vita piatta e noiosa, ma non gli veniva proprio nessuna idea su come accaparrarsi un po’ di fortuna.
L’indomani mattina si alzò più stanco della sera prima e si preparò per andare all’ufficio postale a svolgere alcune commissioni. Lamentandosi tra sé per la calura eccessiva, per non parlare poi dell’umidità che… mannaggia a lei se non era la causa di tutti i mali, giunto a destinazione ebbe subito modo di constatare che molti altri avevano pianificato in modo sovrapponibile al suo i loro spostamenti di quella mattina. E gli fu chiaro soprattutto quando, superata la porta automatica, trovò che la sala era già piena zeppa di nervosissimi esseri umani. Un breve scambio di battute con l’ultima persona in attesa, in ogni caso, lo mise tranquillo:
«È pieno di gente, due dipendenti sono andati a bere il caffè e noi siamo qui ad aspettare! Ma si può? Non ho parole» gli fece un tipo in cerca di facile approvazione.
«Ah, le cose non cambieranno mai. E andremo sempre in peggio» replicò lui cercando il compatimento cosmico.
«È quello che dico anch’io!» concluse l’altro soddisfatto, prima di estrarre lo smartphone dalla tasca posteriore dei pantaloni e fingere di dover gestire affari internazionali.
Dopo circa un quarto d’ora di rassegnata attesa accadde però qualcosa di inaspettato. Armido si sentì strattonare la giacca e strappare il taschino tanta era la forza che lo trascinava verso il basso.
Non cadde, anzi, ma non appena si girò di scatto con l’intenzione di difendersi da quello che certamente era un tentativo di scippo in piena regola, vide la vecchia, che fino a un secondo prima gli stava di fianco, a terra e apparentemente priva di senso. Qualcuno stava già provando a tenerla alla meno peggio e non farla cadere a peso morto sul pavimento; quella che doveva essere la figlia gridava “Mamma! Mamma!!!” in faccia all’anziana.
Armido, che in quel contesto apocalittico era, suo malgrado, al centro della scena, senza pensare più alla giacca strappata disse a quella che doveva proprio essere la figlia di calmarsi e di aprire un po’ il maglione e la camicetta dell’anziana madre, a un uomo tatuato disse di alzarle le gambe e allo stesso tempo stava già componendo il numero per chiamare un’ambulanza. Mentre aspettavano, cominciando a realizzare l’accaduto e ad agitarsi a sua volta, seguì le istruzioni telefoniche della centrale operativa e rispondeva alle domande che gli facevano. Fortunatamente la situazione non sembrava (e in effetti non era) così grave, infatti, riavutasi, la malcapitata ebbe a dire e a ripetere ai soccorritori che non voleva saperne di andare via con l’autolettiga!
Tornò a casa per pranzo che era stravolto, confuso, stupito, sfinito, felice… non lo sapeva nemmeno lui. Ma che aveva fatto? Aveva agito senza pensarci su! Neanche riusciva a realizzare come si stava sentendo ora, in effetti, senza un filo di fame ma con un senso di appagamento che non provava da anni. Quella vecchia, i complimenti dei presenti, gli accorati ringraziamenti di quella che si era appurato essere la figlia che lo aveva guardato come come fosse un salvatore. Era confuso ma gli pareva di stare insolitamente bene con sé stesso e con gli altri… decisamente anomalo, decisamente strano, santo cielo!
Avrebbe tanto voluto raccontare quel fatto a sua sorella ma lei quella sera, in cui lui era a cena da loro, non rinunciò a mostrargli ancora un po’ di risentimento per lo sbotto dalla sera prima. La furbona però si fece gentile e umile quando, dopo cena, si avvicinava il momento di avanzare la richiesta che rappresentava il vero motivo dell’invito.
Dopo il dolce e il caffè, e la suddetta gatta da pelare che gli avevano appena rifilato, Armido si era congedato con svariati sorrisetti di circostanza, ben piazzati nei momenti giusti, maledicendosi mentalmente per essersi reso disponibile ad una richiesta così indecente.
Così, la mattina seguente al giorno z-e-r-o, il buon Armido non poteva che essere di pessimo umore. Si diceva più volte che la cosa sarebbe durata solo una settimana, come aveva fatto spesso nei giorni precedenti, ma non serviva a un granché. Non c’era nessuna sveglia da spegnere, non c’era il lavoro perché era in ferie. No, niente di tutto ciò, ma c’era ben di peggio. Il rumore delle unghie sulla porta finestra del soggiorno, al risveglio, era un rumore che proprio…lui non ce la poteva fare. Solo una settimana. Solo… il rumore cessò per qualche istante poi riprese, determinato. Sembrava dire: “Alzati umano, è ora che tu mi serva la seconda colazione!”. Proprio così, erano le 8:30 in punto, come gli aveva pronosticato suo cognato, esattamente com’erano le 5:30 esatte quando quell’essere peloso sembrava gli stesse dicendo: “Alzati umano, servimi la prima colazione e poi fammi uscire!”. Una cosa ridicola, e lui aveva accettato senza fare troppe storie per giunta! Non lo avrebbe più riconosciuto nemmeno sua madre se lo avesse visto in quella situazione considerato il caratteraccio che aveva sempre avuto. Era a servizio della dannata salama da sugo, detta Pallina in memoria dei vecchi tempi in cui non era ancora sovrappeso. E non era lei ad essere sua ospite, ma il contrario: era lui ospite della gatta per non crearle traumi da cambio d’ambiente. Visto che non aveva niente da fare per le ferie, aveva accettato di trasferirsi nella villetta con giardino della sorella con tutte le libertà del mondo e la sola condizione di fare da governante alla scrofa pelosa, che tra l’altro continuava a non volere farsi accarezzare da lui.
E fu sera e fu mattina: giorno due.
La sera prima, tornato da una cena tra colleghi, non vedendo anima viva ad attenderlo alla porta per entrare, aveva chiuso la porta dicendosi allegramente: “Domattina si dorme!”.
Ore 5:10: un lagnoso miagolio si insinuò prima tra i suoi sogni e poi nel buio della stanza. Poco dopo realizzò che qualcosa non gli quadrava e, mentre la Pallona sgranocchiava i suoi croccantini capì che il gatto doveva trovarsi in qualche punto della casa già dal tardo pomeriggio precedente (e non in giardino come lui erroneamente pensava).
Ore 5:25: dopo l’abbeveraggio, il gatto esce.
Ore 8:30: rientro dal giardino con una talpa in bocca, deposizione della talpa sullo zerbino e annuncio del trofeo con 4 minuti di pomposi miagolii lirici. Dopo la cerimonia, rimozione della talpa e lavaggio dello zerbino dai resti delle sue spoglie mortali.
Resto della giornata privo particolari degni di nota.
E fu sera e fu mattina: giorno tre.
Ore 5:15: consueto appuntamento con l’obesa pelosa, rimpinguata la ciotola e cambiata l’acqua come richiesto dallo sguardo stanco della quadrupede. Fatta uscire.
Ore 8:30: nessun trofeo di caccia oggi al rientro, tutto regolare.
Armido, rientrato dal giardino dopo aver svolto alcuni lavoretti che aveva rimandato il giorno prima, trova un sms della figlia della famosa vecchia, appena dimessa dall’astanteria, che lo invita a casa loro a bere qualcosa di fresco nel pomeriggio.
“Certo, ci sarò con piacere, grazie dell’invito!” disse tra sé Armido auto-dettandosi la risposta mentre la componeva.
Dopo pranzo aveva realizzato che pareva brutto onorare un invito arrivando a mani vuote. Non essendo abituato a questo genere di cose e pensò di farsi consigliare dalla sorella la quale, dopo avergli estorto tutte le informazioni che volevano lei e le sue figlie sulla salute della Pallina e del giardino, gli aveva suggerito di portare una pianta o dei fiori per la vecchia. Uscì di casa mezz’ora prima e, consigliato dal fioraio, riscosse poi un discreto successo con un’orchidea.
Rientrò all’ora di cena pensando che erano proprio delle brave persone. Erano rimasti d’accordo che domani l’altro sarebbero venuti a fargli visita la Paola (figlia della vecchia) con i suoi due figli (Federico e Anna) di 10 e 12 anni, che oltretutto aveva scoperto essere amanti dei gatti e incapaci di resistere alla possibilità di coccolare un persiano di razza.
Ore 22:02: la palla pelosa vuole uscire.
Ore 22:10: pensando che tanto non sarebbe mai potuta fuggire dal giardino, Armido si disse che in fondo non c’era nulla di male ad accontentarla. Così l’indomani niente alzataccia!
Ore 22:20: ottenuto via sms il benestare dei padroni dell’animale (divenuto relativamente collerico per l’attesa protratta), lo lasciò finalmente uscire per la gioia di entrambi.
E fu sera e fu mattina: giorno quattro.
Ore 8:00: qualcosa raschiava contro una finestra in lontananza, forse al piano di sotto, forse da un po’. Era sicuramente la gatta. Era sicuramente alla porta finestra del soggiorno. Buongiorno.
Le aprì e si accorse subito che, stranamente, non stava miagolando come faceva di solito. Silenziosa e lenta andò a sedersi sul tappeto, persiano anch’esso, poco oltre la soglia; pochi secondi dopo, due colpi di tosse e poi, di getto, ci vomitò sopra.
«Eccellente!», esclamò lui.
La Pallina poi si era subito diretta verso il suo cesto per schiacciare un pisolino.
Circa due ore dopo si alzò e il governante era lì nei paraggi: lui infatti, dopo aver lavato e messo ad asciugare il tappeto, era rimasto a casa per monitorare la convalescenza del felino il quale ora, assonnato e debole (più del solito), si era diretto verso un angolo della cucina per vomitare nuovamente. La cosa più preoccupante di tutta la faccenda era che non si era neanche avvicinata alla ciotola dei croccantini né a quella dell’acqua. Lui chiamò allora la sorella che, con voce ferma per soffocare la commozione, gli disse che sarebbe dovuto andare subito dal veterinario. La gabbietta si trovava in garage, con tanti auguri!
Ore 11:00: avrebbe voluto farsi una doccia e medicare il graffio sulla mano ma alla fine si accontentò di una sciacquata sul lavandino di un’altra botta di deodorante.
«Ha detto la tua padrona che non dice nulla ai bambini per non farli preoccupare, quindi vedi di stare meglio e in fretta. Tra l’altro domani ricordati che devi essere in forma per Federico e Anna!»
La felina lo ignorò. “Speriamo bene!” pensò Armido, decidendo che avrebbe atteso l’indomani per avvisare la Paola di un’eventuale disdetta.
Ore 11:35: dal veterinario la sala d’attesa era vuota.
«Buongiorno! Ha i documenti della gatta?»
Glieli diede.
«Che cos’ha Pallina?» disse la veterinaria colorandosi di un sorriso.
«Stamattina ha vomitato due volte e non ha toccato cibo. Mi creda, è molto strano. Cosa crede che le sia successo?»
«Ha mangiato qualcosa di strano ultimamente? Ha avuto anche diarrea?»
«Io le ho dato solo i suoi croccantini. No, non ha avuto diarrea che io sappia. Non so se magari stanotte possa averla avuta, ha voluto trascorrerla fuori casa, in giardino.»
«Eh, con questo caldo è normale. Forse ha mangiato qualcosa di strano fuori. Mi ha portato un po’ di vomito?» disse visitando l’animale, ora incredibilmente docile.
«Cosa?! No, mi scusi, non ci ho pensato.»
«Va bene non fa niente, comunque se ha mangiato qualcosa di strano la cosa dovrebbe risolversi entro domani al massimo, altrimenti me la riporti.»
«Mi scusi se glielo chiedo, ma il gatto è di mia sorella ed è con me questa settimana solo perché loro sono in vacanza: è normale che il pelo abbia di questi nodi qua e là? Di solito vedo che ha il manto omogeneo, anche se da me non si fa toccare…» azzardò la frecciatina alla paziente.
«La pettina regolarmente?» chiese la dottoressa.
«Beh… quanto regolarmente?» chiese Armido, intuendo il problema.
«Almeno una volta al giorno.» fece lei, lapidaria.
In quel momento si ricordò di quando sua sorella gli aveva detto di farlo e lui, come meccanismo di difesa, aveva rimosso la cosa all’istante. Il sudore tornò a presentarsi, assieme a una tachicardia ingravescente.
Appena ne ebbe la forza azzardò: «Che faccio adesso? Da me non si fa toccare!»
Lei scoppiò in una fragorosa risata: «Lo farà, si fidi, deve solo capire che si può fidare di lei. Guardi, visto che non c’è nessuno le taglio via io questi nodi che non si possono sciogliere, poi lei oggi pomeriggio la pettina a dovere, e poi domani e così via, ci siamo capiti?»
«Credo di sì.»
Lei in 5 minuti, con mano esperta, rimosse i nodi ormai irreversibili e poi, dopo avergli fatto un breve tutorial su come si pettina un gatto persiano, gliela riconsegnò tranquilla nella gabbietta.»
«Vedrà che andrà tutto bene» lo rassicurò.
«Voglio credere alle sue parole…» fece lui, e lei rise.
Quindi, pagato il conto, si congedò: «Grazie e arrivederci.»
«Arrivederci» lo salutò lei, cominciando a risistemare l’ambulatorio.
Ore 19:45: Pallina, dopo aver dormito tutto il pomeriggio, si alza. Va a mangiare 5 croccantini e a bere due linguate d’acqua.
Ore 21: Pallina non ha ancora vomitato e va a mangiare ancora qualcosa.
Ore 22: tutto bene, ma è giunto il momento.
Mentre la gatta dormiva sul tappeto pulito lui prese il pettine e le si avvicinò accarezzandola piano. Lei sembrò non scomporsi. Così procedette per gradi, lentamente e con una cortesia che non aveva mai usato con nessuno. Poco a poco si prese sempre più confidenza per cercare di fare un lavoro accurato.
Ore 23: il gatto è pronto per vincere una sfilata Incredibile!
Ore 23.30: Armido si addormenta davanti alla tv, visibilmente soddisfatto della giornata.
E fu sera e fu mattina: giorno cinque.
Ore 3:20: Armido si sveglia in divano, con la luce accesa, la tv accesa e il collo bloccato. Il gatto dorme. Spegne la tv, spegne la luce e, arrancando, sale le scale verso un letto vero.
Ore 9:00: il suo orologio biologico, coadiuvato dalle unghie della Pallina sulla finestra, gli dicono che è il momento di alzarsi.
«Ok, prima mangi e poi vai fuori, ma ti tengo d’occhio!»
Mise davanti alla gatta la ciotola e lei la lucidò. Poi bevve, quindi le aprì la porta. Dopo una frugale colazione uscì anche lui per togliere un po’ di erbacce qua e là.
«Oggi abbiamo ospiti!» disse al felino.
Lei lo ignorò, continuando a fare le sue cose.
Ore 15:58: puntuali arrivarono Federico, Anna e la mamma Paola.
Quando ai due piccoli fu presentata la Pallina impazzirono letteralmente e se la coccolarono un sacco. A dire il vero la cicciona pelosa ci sapeva fare coi bambini, sembrava ringiovanire in loro presenza anche quando erano a lei sconosciuti! Con la Paola invece era un piacere chiacchierare, davvero, e gradì molto l’infuso fresco alle ciliege selvatiche che Armido le offrì (su consiglio della commessa del negozio dove aveva fatto un salto il pomeriggio prima in vista di quell’occasione).
Ore 20: salutati gli ospiti, lui e Pallina cenarono. Erano stati bravi.
Ore 23:30: tutti a letto.
E fu sera e fu mattina: giorno sei.
Ore 5:30: Pallina lo richiama in servizio e lui come uno zombie agisce automaticamente, prima come cameriere e poi come usciere, per poi tornare a letto.
Ore 8:40: si svegliò prima che lei cominciasse graffiare la porta.
Scese e le aprì.
Un’altra cosa che Armido aveva dimenticato era che Pallina aveva un debole per lo yogurt. Glielo aveva detto suo cognato il giorno in cui erano partiti. Se ne ricordò quando, aperto il frigo e preso uno yogurt alla fragola scaduto il giorno prima, ne staccò la lamina protettiva per esaminarne lo stato di conservazione e, nel mentre, la quadrupede orientale fece capolino in cucina. Aveva sentito il rumore dell’apertura del vasetto dormendo, e non aveva saputo resistere!
«Che faccio? Lo butto o lo mangio?» le chiese.
Lei lo guardava fisso.
«Mi sembra buono.»
«Mrrroà» sottolineò lei, continuando a fissarlo.
Accertato, con un cucchiaino, che la modesta quantità di yogurt da poco ingerita non era incompatibile con la vita, le porse il coperchio che, in 0,2 decimi di secondo, lucidò a specchio. Le spalmò il coperchio con un altro strato, superando ancora una volta sé stesso come molte volte aveva fatto in quei giorni, e la Pallina dimostrò di gradire anche il bis. Poi tornò a schiacciare un pisolino mentre Armido finiva di fare colazione.
Fuori pioveva, il che si traduceva in “giornata dedicata alla lettura”.
Ore 16:00: ora del pettine.
Ore 20: finito di risistemare alcune cose lasciate in disordine durante la sua permanenza.
Ore 23: piove ancora, Pallina opta per una pipì nella lettiera.
E fu sera e fu mattina, giorno sette.
Ore 8:45: Pallina vuole mangiare e uscire (non era uscita alle 5.30 perché pioveva ancora).
Ore 12:12: tornano i vacanzieri con tutti i loro bagagli.
«Com’è andata?» chiese loro Armido sorridente.
«Insomma» attacca suo cognato scaricando le valige, dopo che i bambini erano già corsi a cercare Pallina in giardino, «è piovuto spesso, siamo stati abbastanza sfortunati. L’unica contenta è Giulia perché dice che a stare in casa con la pioggia le sembra di essere nella nave dei pirati in mezzo a una tempesta. …bambini» disse scocciato.
«Beh, allora è stata l’unica a non farsi rovinare la vacanza dalla pioggia!» considerò Armido, scoppiando in una risata.
Il cognato lo guardò e tornò al suo dovere di uomo di fatica.
Anche Armido prese due valige e le stava lasciando in ingresso quando vide sua sorella nervosissima.
«Beh? Che c’è?» le fece lui.
«Guarda il pavimento! Sono usciti a cercare la gatta e poi sono rientrati sporcando dappertutto… aaah…»
In quel momento gli si parò davanti Dario, il più grande dei due, con un mattone di fango tra le mani: «Guarda zio, ho fatto un dolce per oggi! Mangi con noi?»
«Oh, ma certo!» replicò Armido con entusiasmo, «Mettilo lì sul marciapiede così si rapprende per bene e sarà pronto per dopo!»
Ricomparve la sorella: «Ehi, ma non ti riconosco più! Ma non sei quello che di solito si lamenta sempre? Ti vedo in gran forma invece!»
«Oh, beh… non è mai troppo tardi per imparare alcune cose… comunque muoviti che prepariamo il pranzo assieme!»
«Okkkei» fece lei stupita e felice.
Ore 14:10: pranzo tutti insieme.
Ore 15:30: saluti e rientro di Armido in casa sua.
Sul divano, ripensò a quanto lui stesso si sentisse cambiato. Il punto non era il perché o il come, notava solo con grande incredulità quanto si stava sentendo bene in quel momento! Il velo di negatività che una volta ricopriva tutte le cose sembrava essersi dissolto.
E addirittura aveva già un po’ di nostalgia di Pallina. Pazzesco!
Si disse che non poteva permettersi di ritornare a essere quello di prima, anzi, non voleva!
Per prima cosa decise allora che si sarebbe annotato per iscritto degli avvenimenti degli ultimi giorni, e che da lì avrebbe continuato tenendo un diario, il diario del suo cambiamento sul quale avrebbe riformulato problemi e soluzioni di ogni giorno.
Solo così avrebbe potuto confrontare, capire ciò che in lui gli piaceva di più e ciò che gli piaceva di meno, e fare caso a ciò che lo faceva sentire davvero bene con sé stesso e con gli altri.
Scrisse dunque tutto l’accaduto delle ultime due settimane, dal bambino con l’aeroplano alla vecchia, dalla Paola alla Pallina e compagnia bella.
Solo alla fine si ricordò dell’ultimo litigio con sua sorella, avvenuto non per colpa della tazza di camomilla ma a causa del suo umore nero dovuto alla stupida rottura della gruccia. In quei giorni aveva affrontato le cose senza pensare a fenomeni avversi, alla fortuna o alla sfortuna e ad altre cavolate che da sempre occupavano la sua mente. Aveva vissuto e basta! Capì solo in quel momento di sentirsi semplicemente più leggero e, allo stesso tempo, pieno di risorse latenti che avevano solo bisogno di essere messe in gioco senza il peso delle paure.
Decise in quel momento che alla domanda “Come va?” non avrebbe mai più risposto “Tiriamo avanti”.
C’erano una volta due nobili possidenti detti Mirto e Bacco, che, da bravi fratelli, decisero un bel giorno di contendersi il primato del sonno. Vollero dunque fare a gara a chi ne aveva di più, quantificandolo ciascuno secondo il proprio metro di misura: uno diceva infatti di avere tanto, anzi, tantissimo sonno; l’altro sosteneva che il suo sonno era invece grandissimo, complessivamente molto più grande di tutto quello che vantava il primo.
A dire il vero inizialmente i concorrenti erano quattro, ma poi le cose andarono in questo modo: un terzo, dopo pochi giorni dal “via”, confrontandosi con gli altri scoprì che in realtà di sonno ne aveva molto poco rispetto a loro e decise di ritirarsi spontaneamente; il quarto che, al contrario del precedente, sulla carta faceva invidia e timore ai primi due, a un certo punto non resistette più e si fece una tale dormita che lo perse quasi tutto subito. Lui, contrariamente alle aspettative, si svegliò così tranquillo e rigenerato che accettò molto serenamente la sua esclusione dalla competizione.
Serenità, la sua, che fece irritare tremendamente i due concorrenti rimasti, che magari si aspettavano di divenire oggetto di invidia e ammirazione.
Mirto e Bacco, determinati più che mai, trascorrevano allora le giornate chiusi nei rispettivi castelli, i quali erano separati tra loro da una vasta e fitta distesa boschiva. Entrambi fecero in modo di riempire di impegni le loro giornate, così tanti da non lasciare che ci fosse mai un momento libero né di giorno né di notte. L’obiettivo era restare svegli ad ogni costo fino a che il rivale non avesse ceduto per primo! E, dato che in questo modo c’era un sacco di tempo in più a disposizione, perché non approfittarne per fare economia? Si potevano infatti gestire affari internazionali da un capo all’altro del mondo a tutte le ore perché, grazie al fuso orario, qualcuno di sveglio c’era sempre! Costrinsero quindi il personale di servizio e gli operai a fare anche turni di notte, per coprire tutte le 24 ore del giorno.
A Mirto un giorno venne però un’idea brillante: quella di conteggiare anche il sonno accumulato dai propri lavoratori che, a dir suo, non si sarebbero mai tirati indietro alla proposta di lavorare ad oltranza per dare una mano al loro signore. Comunicò la sua pensata allo sfidante e la sottopose alla valutazione della Commissione per la Gara del Sonno (CGS). Esito: respinta, subito, perché il patto era che a correre per il primato fossero solo i due nobili partecipanti.
La CGS si componeva di medici, avvocati e notai provenienti da luoghi lontani, svincolati dunque da qualsiasi rapporto di parentela o amicizia con i concorrenti, in modo tale che potessero espletare al meglio il loro compito di giudici al di sopra delle parti. Pagati profumatamente, come da loro stessi richiesto per poter operare con grande serietà e precisione senza il rischio cadere in tentazione (anzi, in corruzione!), si godevano tutte le feste a corte e, quotidianamente, si ritiravano nelle proprie stanze per svariate ore, preferibilmente nel dopo pranzo e di notte, per elaborare e documentare formalmente i loro conteggi.
Mirto e Bacco, oltre a dividersi a metà la proprietà del bosco che separava i due castelli, senza saperlo avevano anche un’altra cosa in comune: la passione per la marmellata ai frutti di bosco e per la crema di nocciole. Loro no, ma i loro servitori e boscaioli conoscevano eccome questo loro tratto in comune! In molti erano infatti gli addetti alla raccolta di nocciole, amarene, ciliegie selvatiche, fragole di bosco, more, mirtilli, ribes, uva spina e sambuco che, nella stagione giusta, dedicavano tutta la giornata a quest’unica occupazione, e per giunta sotto pressione perché lavorassero al massimo della resa.
Lungo la linea mediana del bosco, che segnava il confine delle due proprietà, succedeva infatti di tutto, a seconda di chi bazzicava da quelle parti: coloro che volevano farsi notare per fedeltà e scaltrezza di fronte al loro signore, ambendo a chissà quali speciali riconoscimenti, spesso si dilettavano in furti e dispetti; al contrario, quelli che volevano continuare a stare in pace con il mondo coltivavano le buone relazioni mediante scambi generosi e incontri conviviali (o amorosi). Ma questa, a dire il vero, era normale routine a cui nessuno prestava più attenzione. Ora c’era solo la competizione, tesa più che mai.
Un giorno però le cose cominciarono a cambiare. Quello che all’inizio sembrava solo un fisiologico e temporaneo calo della produzione di nocciole e frutti rossi, cominciò ad aggravarsi progressivamente fino a diventare una vera e propria catastrofe: le scorte, nell’una e nell’altra magione, a poco a poco si esaurirono e non appena i rispettivi titolari ne vennero messi al corrente si fecero prendere prima dalla rabbia e poi dalla disperazione! La prima, ovviamente, portò solo a perdere del tempo prezioso durante il quale il problema si aggravò ulteriormente; la disperazione invece portò consiglio: porgere un orecchio ai consiglieri fidati. Entrambi, di fronte agli ultimi vasetti rimasti sulle scaffalature della cantina, e ignari di trovarsi nella stessa situazione, adottarono la stessa soluzione: diedero ordine ai cavalieri di recarsi presso le corti vicine e lontane per comprare marmellata e crema di nocciole, o almeno le materie prime necessarie alla preparazione; nel frattempo, boscaioli e raccoglitori si sarebbero occupati di scandagliare ogni angolo del bosco al fine di individuare la causa della catastrofe. La mancanza di quelle due prelibatezze infatti, unita al sonno, non faceva che aumentare l’irritabilità di Mirto e Bacco, che diventavano sempre più insofferenti a tutto.
Di conseguenza, in breve tempo nelle rispettive corti non li sopportava più nessuno per quanto erano diventati scorbutici. Non fossero stati i “padroni”, nessuno avrebbe esitato a mandarli a quel paese.
Passarono le settimane e le stagioni, e il caso della mancanza di frutti rossi e nocciole nel bosco non trovava soluzione. Nel frattempo il patrimonio economico dei due andava via via prosciugandosi a causa degli ingenti approvvigionamenti. Era però impensabile tagliare quei costi riducendo gli acquisti, perché quei due avrebbero rischiato davvero la pazzia qualora non ci fossero più state quelle delizie ad addolcire il palato e acquietare l’animo così provato dallo stress della gara. Uno scenario terribile, che si profilava all’orizzonte proprio quando il gioco si faceva più duro. Guai a mollare adesso. guai a macchiare la propria immagine orgogliosa e vittoriosa con una sconfitta! Ma pensare alla mancanza di crema o di confettura era insostenibile: e chi avrebbe mai pensato di trovarsi in una simile situazione? Non era mai successo prima d’ora! E se, a un certo punto, non avessero più avuto nemmeno i soldi per pagare l’onerosa CGS? Di nuovo rabbia e di nuovo disperazione, poi di nuovo rabbia e così via…
Un giorno all’ennesima sfuriata di Bacco con una serva che, secondo lui, gli aveva versato l’acqua in modo troppo rumoroso, Eleonora, la signora madre, sbatté le posate sul tavolo e si alzò di scatto gridando: «Adesso basta!!! …e chiedi scusa!!!»
Il signor figlio Bacco, pietrificato, nel silenzio immobile calato nella sala volse lo sguardo alla serva e le bisbigliò uno «…scusa.» Poi abbassò di nuovo lo sguardo e la serva, dopo un inchino, si allontanò (senza nascondere un certo imbarazzo).
«Oggi incontrerai una persona che ho convocato qui a corte nel primo pomeriggio. In silenzio ascolterai quello che ti dirà, quindi mi occuperò io di congedarla con le giuste maniere, che oramai sembra tu abbia perso assieme al senno.»
«Signora madre, io…»
«Zitto!»
Il pranzo terminò in silenzio, tanto era lo stupore in tutti i commensali per l’aver visto il loro signore nei panni di un figlio docile e impaurito. La madre, riprendendo il suo ruolo con polso, aveva saputo far fronte ad una situazione da troppo tempo fuori controllo.
Tuttavia, che cosa avesse in mente, e chi fosse questa persona che lei aveva convocato a corte, nessuno lo sapeva.
Erano quasi le ore 16 quando, nel silenzio del cortile, irruppe l’incedere di un cavallo al trotto che faceva da sfondo a un ridacchiare continuo. Eleonora si apprestò a far aprire il portone d’ingresso e ad uscire per accogliere l’atteso ospite, con un’espressione del viso che comunicava un misto di orgoglio e imbarazzo. In effetti, neanche volendo avrebbe potuto far passare per consueto e ordinario un personaggio che di normale non aveva neppure il cappello! In groppa a un destriero piuttosto vecchiotto, di nome Sacripante, si presentò, al cospetto dei nobili che si stavano disponendo ai due lati della signora madre, niente meno che Tecèto, detto da tutti “il matto del villaggio” anche se lui preferiva farsi chiamare L’Orlando. Amava vestire la sua calvizie con un coloratissimo cappello da giullare, che aveva, appesi alle punte cadenti, dei sonagli che non producevano alcun suono. Il resto dell’abbigliamento variava molto in base, diceva lui, all’outfit che gli consigliava Sacripante la mattina prima di fare colazione (quindi ancora a digiuno dalla sera prima) ma solitamente si componeva di stoffe dai colori molto vivaci e dal taglio anticonvenzionale.
Ma L’Orlando non era chiamato “il matto” per uno di questi motivi: l’appellativo derivava dal fatto che passava le sue giornate a ridere! Rideva forte, rideva piano, sorrideva, ridacchiava… molte erano le varianti, ma tutte sul ridere.
Ovviamente era contagioso e seminava il buon umore anche nelle giornate peggiori per la comunità del vicino paese. Nessuno può dire con esattezza come occupava le sue giornate, ma sta di fatto che tutti i giorni (o quasi) partiva la mattina di andare a inoltrarsi nel bosco selvaggio, quello che non era di proprietà di nessuno. C’è chi diceva di averlo sentito parlare con gli animali una volta, ma sono solo voci. Tornava poi la sera tardi nella stalla al cui interno si era ricavato un mini alloggio dotato, a dir suo, di tutti i comfort. Nessuno sapeva come facesse, ma aveva sempre da mangiare senza chiederne mai a nessuno e, spesso, aveva anche di che aiutare chi ne aveva bisogno. Rubava, direte voi. E invece no! Anzi, grazie al suo udito finissimo – aveva bloccato i sonagli del cappello proprio perché gli davano fastidio – si svegliava subito nel caso in cui di notte ci fossero rumori insoliti provenienti dal paese, molto distante, e in un attimo si fiondava a vedere che succedeva e, scoppiando a ridere, svegliava tutti facendo acchiappare il malcapitato ladruncolo o sventando altre minacce.
Chiusa questa breve ma doverosa parentesi a proposito di Messer L’Orlando (come invece lo chiamavano le donne del paese), torniamo alla corte di Bacco, dove i nobili e, un attimo dopo, il signor padrone stesso, non sapevano se essere più sbigottiti o divertiti. Non si capacitavano di come la signora madre potesse prendere così sul serio un matto del genere ne tanto meno di cosa si aspettasse che dicesse in merito alla drammatica situazione che stavano vivendo. Era forse diventata più pazza di suo figlio, o del matto stesso? Anche suo figlio, incredulo, sembrò sospettarlo, e fece per andarsene con fare disinteressato e nervoso se non fosse stato per lo sguardo autorevole di Eleonora che lo tenne agganciato al suo volere.
Non appena si fece silenzio, prese la parola lei:
«Ho qui convocato Messer L’Orlando perché, da profondo conoscitore dei boschi quale egli è…»
Risatina del giullare, che fece sogghignare i presenti.
«…ha da proporre una soluzione al problema della carenza di frutti rossi e nocciole, causa della nostra caduta libera verso la miseria, sempre più prossima quanto più tempo passa, nonché rischio per la salute di mio figlio, già duramente provata da una competizione sulla quale preferisco non esprimere il mio personale giudizio. Dunque la parola a Voi, Messere.»
«Ahahaha!!! Ehm… dunque… Ehilà! Allora. Giusto due parole. Signore (nel senso di signor padrone della corte), Signora (nel senso di lei, sola signora donna) e signori voi tutti che Sacripante, mentre lo legavo prima di entrare, mi ha chiesto di salutare. Dovete stare sveglio per vincere la gara e, in più, avete problemi con il bosco. La soluzione, a mio cavalleresco parere, che tra l’altro condividevo poc’anzi con Sacripante, è che voi quanto prima, direi di notte verso le 23.30, andiate nel bosco fino al lontano limitare della vostra proprietà, cioè fino alla rete in mezzo al bosco per intenderci… con parole spicce, ecco… avete capito. Ecco, in quel luogo io ho già provveduto a mettere uno specchio! Lo specchio è fondamentale, ma il perché non si può dire. No, non si può dire sennò… sennò niente, ecco. Ma c’è di più: dovete andare là, alle 23.30, vestito di grigio con un panno un po’ peloso che non sia però una pelliccia. Panno: peloso sì, pelliccia no! Ahahah!!! Dovrete stare là, rannicchiato su voi stesso fino a mattina, sempre fermo in quella posizione. Non dovete fare movimenti bruschi, mi raccomando! Nel caso vi vengano proprio, al massimo cambiate leggermente la posizione ma molto molto lentamente, e di poco.
Ah, e dovrete fare silenzio. Concessi solo dei bei respiri profondi.
Ecco. Ho finito. Salute a voi tutti e tutte! Il dovere mi chiama, ahah! …ciao!»
Saltellando uscì dalla sala e, dopo un po’, tutti scoppiarono a ridere. Lui però, il signor figlio, non rise. Era irritato per essere stato tenuto in scacco dalla madre. A dire il vero, gli davano fastidio più le risate dei presenti però, che gettavano nel ridicolo la ferma convinzione di sua madre che sembrava contraria ad ogni logica.
Per ripicca quindi, sfogando il suo orgoglio, prese la parola con fermezza dicendo:
«Silenzio! …e sia! Voi tutti ritiratevi nei vostri appartamenti e non fatevi più vedere fino a che non ve lo dirò io. Voi della Commissione pensate a fare il vostro lavoro. Stanotte stessa andremo nel bosco. Voi, a debita distanza per non distrarmi, starete svegli, come me, mentre io farò quello che mi ha detto. La situazione è drammatica e nessuno di voi finora è stato capace di proporre alcuna soluzione… non mi rimane quasi più niente da perdere, ma voi siete ancora alle mie dipendenze e fate quello che dico io!.»
«Ma signore, nel bosco…», fece un notaio.
«Stanotte dovremmo trasferirci dal suo sfidante per i di lui conteggi…» lo aiutò un avvocato, sogghignando sotto i baffi.
«Ci andrete domani, altrimenti rinuncio alla sfida e vi licenzio ora senza il premio di verdetto, che non mi farebbe male considerate le condizioni in cui versa il mio patrimonio.»
«No no signore, come desidera. Stanotte nel bosco!» si affrettò a concludere il notaio che aveva parlato per primo, facendosi portavoce di tutta la Commissione.
La signora madre procurò un mantello con cappuccio grigio e peloso come richiesto. Poi si assentò per qualche ora dicendo che sarebbe dovuta andare a svolgere delle commissioni in paese. Da sola.
La sera, Eleonora tornò che erano le 22, ma alla corte non c’era già più nessuno. Infatti erano partiti e, come previsto, erano giunti al luogo detto dal matto alle 23:30. Quelli della CGS, come da accordi, si erano fermati prima, mentre Bacco, nel buio, si era avvicinato alla rete fermandosi quando, di fronte a sé, vide una sagoma uguale a lui che gli veniva incontro, lentamente. Solo dopo qualche istante aveva capito che doveva essere lo specchio che aveva messo il matto. Si tranquillizzò e, sempre osservando la sua sagoma che lo imitava a qualche metro di distanza, si rannicchiò a terra trovando una posizione comoda e iniziando a rilassarsi, con respiri profondi e regolari. Dopo circa mezz’ora a qualcuno dei presenti, seppur distanti, parve di sentirlo russare, ma ovviamente nessuno si era azzardato a dire nulla.
Attesero tutti in silenzio, come da ordine ricevuto, senza sapere cosa attendere, senza sapere quando e come si sarebbe manifestato l’effetto di quella cosa bizzarra.
Tutti si rendevano conto di stare facendo qualcosa che usciva da ogni logica plausibile, qualcosa che nemmeno un bambino dalla fervida immaginazione avrebbe mai pensato. Eppure erano lì, chi per un ordine, chi per una fiducia cieca in qualcosa che non capiva.
Laura Ometto
Ad un certo punto un fruscio indefinito, appena percepibile, cominciò a diffondersi in tutto l’ambiente circostante. Inoltre, alcuni luccichii qua e là cominciarono a brillare nei punti in cui la luce della luna penetrava le chiome. Ma ciò che più di tutto intimorì i presenti fu la sensazione di un gioco liquido del terreno, degli arbusti e dell’erba tutto intorno. Qualcuno ebbe la sensazione di essere sfiorato per un attimo da qualcosa di morbido, soffice e veloce.
C’era del timore nell’aria, ma nessuno si spaventò al punto di gridare perché, in un certo senso, nessuno provava un vero senso di pericolo.
Ci volle un altro po’ di tempo prima che la luna arrivasse ad illuminare anche il manto dei due nobili e mostrasse che giacevano ora circondati da una coltre di nocciole e frutti rossi, che cresceva mano a mano che questi venivano portati a ritmo febbrile da una moltitudine di piccoli ghiri che si avvicendavano, senza sosta, in quella danza incredibile. Svariati cumuli crescevano attorno ai due, uno da una parte e uno dall’altra della rete che divideva le loro rispettive proprietà.
La mattina seguente, il sole sorse e i ghiri erano scomparsi. Al loro posto si erano radunati tutti i boscaioli, i raccoglitori, le raccoglitrici e tutto il personale di servizio di uno e dell’altro, tutti sbalorditi da quello spettacolo. Nessuno specchio di vetro. Solo loro due, l’uno di fronte all’altro nella stessa posizione, circondati dai cumuli. Da quanto tempo non erano così vicini quei due fratelli?
Il sole che svegliò i due, tuttavia, non fu che quello di diversi giorni dopo.
Aprirono gli occhi cisposi nello stesso momento e si guardarono increduli, avvolti da un intenso profumo di pane appena sfornato. Erano ancora lì, in mezzo al bosco e la rete che ricordavano non c’era più: al suo posto c’erano delle tavole imbandite per la colazione, costellate di vasetti di confettura ai frutti di bosco e di crema alle nocciole, e ceste piene di fette di pane croccante, bevande di ogni genere, frutta e altre prelibatezze. Non capirono, ma, guardandosi attorno e pieni di un’energia nuova, decisero che abbracciarsi poteva essere una buona idea.
Il clima era festante, allegro. E come avrebbe potuto non esserlo dato che ad animare il tutto era proprio Messer L’Orlando? I due fratelli si sedettero vicini, condividendo la sensazione di essersi risvegliati dopo un lungo sonno pieno di incubi e di sogni molto strani. Scoprirono di avere molte più cose in comune di quelle che pensavano, tra cui un patrimonio ridotto all’osso. Ma nessun nervosismo, nessun velo scuro sulla realtà, tutto era straordinariamente leggero e bellissimo.
«Alla fine guarda se dovevano essere proprio i ghiri a insegnarvi che nella vita si può dare il massimo solo se si dorme bene… ahahaha!!!» disse Orlando ai figli che aveva creduto di aver perso per sempre.
I due si guardarono: «I ghiri!?» esclamarono all’unisono.
Lui invece si voltò a dare un bacio alla signora madre, seduta di fianco a lui.
C’era una volta un riccio che si sentiva sempre a disagio perché aveva la forma di una palla. “Fortuna che ho gli aculei!” si diceva ogni mattina, “almeno quei bulli antipatici si terranno alla larga per paura di pungersi! Ah, che vita difficile…”.
Alla stessa scuola andava una tartaruga, che era invece presa di mira per due motivi: uno perché aveva la pelle tutta a grinze che la faceva sembrare vecchia, due perché era lenta. “Meno male ho questo guscio duro”, si diceva per farsi forza, “così quando mi saltano sopra o mi lanciano qualcosa addosso io nemmeno me ne accorgo!”. L’anno dopo arrivò però qualcuno che pareva essere ancora più sfortunato di loro: era una lumachina, che si era appena trasferita lì. Dato che nessuno l’aveva mai vista prima, rappresentava per tutti “la novità” e divenne ben presto lo zimbello di tutti, dando così ai primi due un breve (breve) periodo di tregua. La canzonavano per tre motivi: uno perché era lentissima (ancora più della tartaruga!), due perché lasciava una scia di bava sul pavimento ogni volta che passava da un’aula all’altra e, tre, perché il suo guscio fatto a chiocciola sembrava uscito direttamente dall’epoca barocca e tutti vedevano come ridicolo e fuori moda.
Facile immaginare quanto fosse difficile per loro tre svegliarsi tutte le mattine, ad eccezione della domenica, con il pensiero di dover affrontare un’altra giornata a scuola. Quei compagni sembravano non trovare proprio nulla di meglio da fare: i maschi, così spontanei in battute sempre diverse e ricercate, stavano sui soliti argomenti per far ridere le femmine; quelle, d’altro canto, o ridacchiavano per le battute dei maschi o facevano commenti a bassa voce sghignazzando tra di loro. E poi, una dopo l’altra, le occasioni si moltiplicavano nelle pause tra le lezioni e quanto mai durante l’interminabile intervallo che, per direttive della Presidenza, era vietato trascorrere standosene buoni buoni seduti al proprio banco. Ogni mattina era come un conto alla rovescia passato a subire senza avere il coraggio di controbattere a nulla, anche perché bastava provarci che si sarebbe solo fornito altro materiale utile al nemico per la sua interminabile produzione derisoria, come avevano dimostrato alcuni timidi e inutili tentativi iniziali. Cosa poteva uno solo contro tanti, anzi, praticamente tutti? Era frustrante, e diveniva sempre più insopportabile per tutti e tre i compagni-bersaglio mano a mano che il tempo passava, considerando anche il fatto che tra loro si conoscevano solo di vista e mai avevano osato guardarsi negli occhi ne tanto meno parlarsi.
Guai se qualcuno avesse pensato che solidarizzassero tra loro, sarebbe stata una catastrofe, ancora peggio di quella che già era stata fino a quel momento la loro vita scolastica.
Erano infatti non solo diversi dagli altri, ma diversi anche tra loro per aspetto e provenienza. Riccio era il secondo di due figli in una modesta famigliola residente lì in paese da sempre. Conoscevano tutti e tutti li conoscevano, ma amavano la loro tranquillità partecipando poco o per nulla alla vita politica e sociale, ne a quella di piazza ne, men che meno, a quella in campo sportivo. Nei giorni feriali frequentavano il lavoro lui e la settimana enigmistica lei; nel fine settimana onoravano invece la tradizione di scambiare quattro chiacchiere con i loro amici storici trovandosi a casa ora di uno ora dell’altro.
La famiglia di Tartaruga era invece di altra estrazione sociale essendo stato, suo padre, prima dell’attuale pensione, un ambasciatore; entrambi di origine estera, stanchi della vita sotto i riflettori tra i palazzi del potere, i suoi avevano deciso un bel giorno di trasferirsi in Italia in un paesino qualsiasi dove poter ricominciare da capo, sconosciuti e tranquilli, pur mantenendo il loro abituale stile di vita che, nonostante la loro innata sobrietà, per livello di agio e cultura non sarebbe mai potuto passare del tutto inosservato in quel contesto rurale che, per estetica e cultura media, era decisamente ruspante.
Quanto alla Lumachina, lei con i suoi due genitori, le sue due sorelle, suo fratello e i quattro nonni potevano dirsi davvero, in quella provincia, gli ultimi arrivati; a dire il vero, non si erano mai fermati a vivere nello stesso luogo per più di tre o quattro anni, con grande e ma oramai abitudinaria insofferenza da parte di tutti. La mamma si occupava da molto tempo di ricerca sulle origini dei suoni e degli strumenti musicali e per questo motivo, non appena trovava un luogo particolarmente interessante per motivi che a spiegarli sarebbero stati incomprensibili ai più (compresi i suoi familiari), manifestava la necessità di trasferirvisi. Essi allora sempre la appoggiavano e poi, loro malgrado, la seguivano. Era vero che aveva al suo attivo pubblicazioni ritenute preziosissime dalla decina o due di esperti che nel mondo sapevano stimarne con competenza il valore, ma chi la seguiva da molti anni lo faceva solo per via del luccichio dei suoi occhi soddisfatti e dall’energia positiva che emanava quando poteva dedicarsi a ciò per cui viveva con la vicinanza di coloro che amava. A loro comunque dedicava tutto il suo tempo libero. Ogni volta cercava una casa vicinissima alla scuola e al centro del paese per poter economizzare il più possibile sulle tempistiche degli spostamenti della tribù. In tutto ciò, il marito si doveva trovare (o almeno cercare) sempre nuove occupazioni, mentre dei due nonni materni, che fortunatamente potevano dirsi ancora attivi, uno si occupava della casa e l’altra dei nipoti; a turno, poi, anche degli altri due anziani di casa.
Riccio, Tartaruga e Lumachina erano dunque tra di loro tre perfetti sconosciuti, in sezioni diverse e con insegnanti diversi. A scuola erano però accomunati non solo dal triste ruolo di bersaglio affidatogli dai compagni, ma anche dal tristissimo ruolo di “pecora nera” conferito con voce unanime a ciascuno di loro dai collegi docenti delle rispettive classi. Questo perché, oltre ad essere stati notati fin dai primi giorni come asociali e un po’ scontrosi con i compagni, dimostravano chiaramente di non volersi integrare nel gruppo classe, che per il resto era ben coeso e partecipativo, rovinando così anche i risultati di chi si trovava a dover lavorare con lui o lei in qualche attività di gruppo.
Le opinioni degli insegnanti su ciascuno di loro erano praticamente sovrapponibili. Riccio, per esempio, era considerato un tipo burbero e schivo dalla sua insegnante più vecchia, una talpa, la quale non perdeva occasione di ripetere ai genitori che loro figlio avrebbe dovuto assolutamente tagliare o smussare quelle pericolosissime spine delle quali si era circondato; aveva cominciato il primo anno a scrivere numerose e arzigogolate note sul registro con l’intento di stimolare una reazione di cambiamento che riportasse il ragazzo sulla strada della buona condotta dal punto di vista comportamentale ed estetico ma, non vedendo risultati, aveva deciso un giorno di cominciare a punirlo con i voti, stabilendo che un ragazzo che non partecipa in classe e si difende a suon di graffi e pizzicotti meritava di fare doppia fatica rispetto ai suoi compagni per stare al passo e mettersi in riga.
Diversa, ma solo in apparenza, era la sorte toccata a Tartaruga, avendo trascorso l’infanzia in un sistema scolastico del tutto diverso e di livello più alto considerate le possibilità di un ambasciatore: al via delle lezioni nella nuova scuola, era infatti già in possesso di un bagaglio culturale che avrebbe coperto tranquillamente tutto il programma del primo anno e anche in modo più ricco ed esaustivo. Forte di questo, nella convinzione di poter dare il suo contributo alla classe e magari piacere all’insegnante, interveniva spessissimo qualunque fosse l’argomento affrontato. La cosa non durò molto. Gli fu fatto capire che in quel modo creava malumore nella classe e che era normale che i suoi compagni qualche volta lo prendessero in giro. Smise di intervenire ma le burle continuarono sui soliti motivi, con la differenza che ora passava per asociale e disinteressato; inoltre, fioccarono le note per cattiva condotta in quanto disattento durante le lezioni e anche qualche voto negativo a scopo didattico per sottolineare come una compilazione eccessivamente ricca di nozioni e approfondimenti dei compiti in classe fosse in realtà una grave incapacità di sintesi legittimamente punibile sia come errore in sé sia come “fuori tema”.
I genitori di entrambi a poco a poco si sentirono disarmati a forza di prendere rimproveri ora dai docenti ora da proprio figlio. Frustrati dalla propria inadeguatezza come educatori che, sotto forma di fatti e rimproveri e litigi, si parava loro davanti in ogni momento, i genitori di Riccio e quelli di Tartaruga si sentivano ugualmente disarmati di fronte ai loro figli, che ora neanche riconoscevano più da tanto erano divenuti scontrosi e intrattabili: inventavano scuse ogni mattina per non andare a scuola, simulavano febbri di natura ignota e crisi isteriche che neanche una taranta avrebbe potuto contenere.
Come comportarsi?
I genitori di Riccio da sempre credevano nell’inefficacia della linea dura così, a parte blandi rimproveri e monologhi (della mamma) che narravano al figlio i possibili drammatici finali della sua esistenza se avesse continuato a non cercare un punto d’incontro con gli insegnanti e con i compagni, non si spingevano mai oltre e poi cadevano spesso in penose fasi di passiva rassegnazione.
La madre e il padre di Tartaruga, al contrario, spiazzati dalla nuova natura del figlio e dal deplorevole calo del rendimento scolastico, reagirono con ferme punizioni e taglienti minacce. Solo dopo il primo colloquio col professor coniglio ammorbidirono di molto il loro metodo educativo e cominciarono a porsi molte domande, non perché il colloquio fosse andato bene, anzi, piuttosto per il senso di disorientamento con cui ne uscirono. Da che parte stava la verità? O meglio, la realtà? Erano confusi. Il suddetto docente aveva parlato loro di un figlio con lacune che toccavano tutti i punti fondamentali degli argomenti trattati da lui e dai colleghi che, di comune accordo, proponevano di non escludere un’eventuale bocciatura la quale avrebbe favorito da un lato il consolidamento di alcune conoscenze di base e dall’altro avrebbe portato a cambiare i compagni di classe, cosa che avrebbe di sicuro giovato. Con questi infatti sembrava proprio non volerci avere a che fare, forse perché si sentiva superiore a loro? “Non a voler essere scortese, con tutto il rispetto, ma non sarebbe stato meglio insegnare fin dalla tenera età al proprio figlio come si sta al mondo?” disse ai coniugi, che all’udire quelle parole rimanevano di stucco.
Fortunatamente il primo anno si concluse senza bocciature ma con una serie di voti al di sotto della media, di note sul registro e sul libretto e, nella pagella di Tartaruga, un suggerimento scritto di supporto psicologico. Inoltre, dopo pochi giorni i genitori di Riccio vennero a sapere che proprio loro figlio l’ultimo giorno di scuola, all’uscita, aveva lanciato un gavettone alla vecchia e tanto amata professoressa talpa, la quale, in risposta, gli lanciò una promessa di bocciatura per l’anno successivo. Confessò ai suoi che era d’accordo con tre compagni di classe, con i quali aveva legato nel corso degli ultimi due mesi, i quali però alla fine lo avevano lasciato lì da solo nel momento peggiore, con il gavettone bello e lanciato e la professoressa in primo piano che, ovviamente, aveva visto solo lui.
È chiaro dunque come l’arrivo di Lumachina l’anno dopo fosse stato davvero un sollievo per i due, non tanto nel rapporto con gli insegnanti ma per quello con i compagni. Dal canto suo invece, la povera new entry aveva capito al volo che avrebbe dovuto farsi forza e resistere con un dispendio di energia in pazienza e autocontrollo molto superiore alla media. Coincidenza vuole poi che proprio alla sua mamma toccarono i primi colloqui con i docenti, e che questi, oltre a comunicarle la loro preoccupazione ed il loro disappunto riguardo all’aspetto, l’asocialità e la condotta della figlia, lo fecero ponendosi nei suoi confronti come si fa con una persona che, per aspetto e modo di fare, lascia pensare a un certo grado di ritardo mentale. “Signora, scusi se glielo chiedo, ma crede che tutti questi cambiamenti abbiano fatto bene alla crescita di sua figlia?”, “Di che cosa si occupa suo marito? Come scusi, sta cercando lavoro? Non ha un titolo? E lei?? ..di suoni, dice? Ma non crede che sarebbe meglio occuparsi, con tutto il rispetto, dei suoi figli? Sua figlia si trova in difficoltà di fronte a un test a crocette, a un questionario a scelta multipla, capisce?? Posso capire la sua passione, sì, scusi, lavoro. Ma…” “Da dove mi ha detto che venite?”.
Dopo una cosa che fu quasi un monologo al quale la mamma di Lumachina assistette con pazienza e un certo grado di interesse, sulla strada di casa ebbe modo di ragionare e rielaborare il tutto. A casa poi ne parlò col marito. Alla figlia disse, rimanendo sul vago, di studiare un po’ meglio e provare ad applicarsi facendo più esercizi di quelli suggeriti come compiti a casa. Per quanto riguardava i suoi compagni bulli le disse invece che ci avrebbero pensato i suoi insegnanti a mitigare il clima e calmare le acque, come le avevano promesso al colloquio.
Il lunedì seguente, però, accadde un fatto.
Sul quotidiano locale uscì un breve articolo che scosse (a dir poco) la monotonia di quel paesetto, riuscendo in poco tempo a concitare braccia mani e voci dalla piazza alla scuola. Insomma, un tipico esempio di fulmine a ciel sereno. Dal suddetto articolo pareva proprio che quella che era sempre stata considerata una mediocre scuola di provincia pareva essere una scuola seria! Anzi, ma quale scuola seria: un’eccellenza! L’entusiasmo dell’opinione pubblica schizzò a mille. Ma quando era avvenuta questa trasformazione, questo salto di qualità di cui nessuno aveva mai letto o sentito parlare prima di allora? In ogni caso bisognava diffondere subito la notizia, farne un caso nazionale! Per una volta sarebbe stato un motivo per far parlare di sé. E, per di più, andarne anche orgogliosi!
Ma bisogna leggerlo, l’articolo, per capire bene di che cosa si sta parlando. Eccolo dunque riportato qui di seguito:
Buongiorno e un caro saluto a tutti i lettori. Sono l’ultima arrivata, assieme alla mia famiglia, nella vostra comunità, dunque fino ad ora ho avuto il piacere di conoscere solo pochi di voi. Il nostro approdo alla vostra terra è stato solo l’ultimo di una serie di traslochi che sono, da sempre, un ritornello che cadenza la nostra vita scandendola in periodi di tre o quattro anni e che si rende necessario a causa delle mie personali quanto peculiari esigenze lavorative. Fortunatamente il nucleo è solido e ho sempre trovato approvazione nonostante sacrifici e disagi che, da parte mia, riconosco e cerco di alleviare il più possibile. Sì, mi ritengo molto fortunata. Non voglio però occuparmi di questo nel presente articolo, perché, a dire il vero, è un altro il motivo forte che mi ha spinta a chiedere la cortesia di questo spazio. Non sono una giornalista, perciò mi scuso se la forma non è perfettamente coerente con il contesto, ma dopo qualche mese di frequentazione delle scuole medie paesane da parte della mia figlia maggiore non ho potuto esimermi dall’esprimere per iscritto e pubblicamente quello che penso nei confronti di questa nuova e spiazzante esperienza scolastica: qualcosa di stupefacente! Dopo aver conosciuto molti istituti e insegnanti diversi, dichiaro che mai come ora ho stimato tanto un’organizzazione, una scelta di programma così matura e moderna, un corpo insegnanti così competente, disponibile e flessibile. Di solito si pubblicano solo le lamentele, al fine di renderle più incisive e taglienti oppure per stimolare una punizione per così dire “sociale”, invece per me si è inaspettatamente reso necessario pubblicare un sentitissimo e, a mio parere meritatissimo, encomio al miglior esempio di istruzione con il quale sia mai venuta in contatto, che sa integrare lezioni teoriche e pratiche favorendo l’acquisizione di competenze su tutti i livelli mediante esercizi in apparenza banali ma che fissano efficacemente un sapere così solido da essere il miglior fondamento per qualsiasi scelta matura. Con basi di questo tipo, per l’alunno si tengono veramente tutte le porte aperte e non, come spesso accade, solo quelle legate alle poche materie che si ha avuto la fortuna di svolgere decentemente. Insomma, questa scuola è un vero fiore all’occhiello di questa cittadina e di questo Stato, ed è un peccato che, per il fatto di trovarsi in una realtà rurale e lontana dai riflettori, non possa essere conosciuta e presa ad esempio per migliorarne molte e molte altre.Non mi dilungo ulteriormente per non essere ripetitiva e per non rischiare di smorzare il grande valore del concetto che ho voluto esprimere. Cogliendo questa preziosa occasione per trasmettere anche l’entusiasmo di mia figlia, non meno vivo e, soprattutto, non meno importante del mio, ringrazio nuovamente il Direttore di questa testata per la sua grande disponibilità e sensibilità e faccio i miei migliori complimenti e auguri a questa grande realtà scolastica e al suo prodigioso corpo docenti. Continuate così!!!
Lumaca
Allo stupore dei paesani si specchiava, dall’altra parte, quello degli insegnanti e del preside, che rimasero del tutto sbigottiti di fronte a tale articolo. Non trovavano spiegazioni quelli che non la conoscevano ne, tanto meno, quelli che conoscevano la signora Lumaca mamma di Lumachina.
Se da un lato erano estremamente lusingati da una così generosa pubblicità, dall’altro pensavano fosse diventata completamente pazza. Alcuni però commentavano: “Beh, se tutti i pazzi ci scrivessero articoli così sui giornali… niente male!!!”, e moriva tutto in una risata generale.
Lei però sapeva che cosa veramente voleva ottenere con quell’articolo e, come volevasi dimostrare, fu solo questione di tempo.
Infatti, come auspicato, la voce si sparse da sola, e con questa l’articolo che fu ripreso e commentato da altre testate. E poi da altre e altre ancora.
Recitando la sua parte alla perfezione, alla prima occasione utile comunicò anche ai suoi colleghi ricercatori, sparsi in giro per il mondo, il suo entusiasmo per il tesoro educativo custodito in quel piccolo paesino sconosciuto, e così la cosa destò ancora più interesse a tutti i livelli.
L’eco di quella meravigliosa sorpresa ci mise un po’ ad arrivare in paese, ma, quando arrivò, il preside fu il primo a capire che le cose in fondo non si stavano mettendo così bene com’era sembrato fino a quel momento: infatti era il primo ad avere ben chiare tutte le lacune della sua scuola, le criticità organizzative e logistiche, quelle dei programmi e dei testi adottati che erano gli stessi da anni date le reticenze ai cambiamenti imposti dal ministero (ai quali di anno in anno ci si adeguava cambiando il minimo sindacale obbligatorio) e i punti deboli tra i docenti.
Fu anche il primo a ricevere le prime richieste formali di visita all’Istituto, coronate da complimenti e ringraziamenti anticipati, da parte di personaggi illustri del mondo della cultura come insegnanti e presidi di altri istituti, scrittori, filosofi, intellettuali e giornalisti. Per quanto la cosa lo terrorizzasse, sapeva però che alla curiosità di gente del loro calibro non si poteva rispondere di no. Che figura avrebbe fatto se avesse presentato la scuola così com’era a chi rappresentava davvero un punto di riferimento per il sapere e per l’opinione pubblica? Altroché complimenti gratuiti, quell’articolo aveva scatenato un vero e proprio cataclisma! Credette di sentirsi male! Ma bisognava reagire. O scappare, o reagire. Scartata la prima opzione perché ritenuta poco conveniente, mise da parte per un attimo le lettere ricevute e cominciò a fare delle ricerche, procurarsi documenti e programmare una serie di riunioni urgenti ed obbligatorie con gli insegnanti. Non c’era tempo da perdere e bisognava agire con intelligenza e contro ogni principio tipo “abbiamo sempre fatto così”, cosa che era stata applicata per troppi anni come unico modus operandi. Prendendo un paio di mesi di tempo con la scusa del completamento di interventi strutturali sull’edificio, che in effetti erano in corso, diede il tempo alle cose indirizzarsi verso un nuovo percorso: cambio dei testi e ripristino dei laboratori che, pur presenti e ricchi di materiale a disposizione fin dalla riorganizzazione degli spazi voluta dal preside precedente, giacevano impolverati e dismessi. In tutta questa rivoluzione gli insegnanti, tra una minaccia di sciopero e una di trasferimento, si dovettero concentrare sul nuovo programma riprendendo in mano le lezioni per ripensarle da zero dovendo includervi anche attività pratiche che mai avevano insegnato ma che da piccoli avevano appreso.
Gli alunni spiazzati, dal canto loro, non ebbero più il tempo di distrarsi, in quanto cominciarono a sperimentare un’attenzione diversa da parte degli insegnanti che proponevano loro attività nuove, come lavori individuali o di gruppo che sembravano giochi. Intanto il preside, nei momenti liberi dai litigi con i colleghi, doveva trovare spiegazioni ragionevoli per quei genitori che non avevano capito come stavano andando le cose e si sentivano attaccati da tutti questi cambiamenti. Altri invece non avevano perso la prima occasione per complimentarsi con quell’eccentrica di Lumaca, mamma di Lumachina.
Trascorsi i due mesi, in un battibaleno l’ingresso della scuola si popolò di giornalisti e personaggi di quelli che a sentirli parlare o anche solo a star loro vicini ci si sente pervadere di un’energia nuova, di quelli che ti aprono gli occhi su prospettive inedite e di quelli che ti stimolano mille nuovi interessi e slanci. Almeno uno o due pomeriggi alla settimana tutti gli alunni della scuola dovevano obbligatoriamente fermarsi per ascoltare monologhi che, contrariamente alle proprie aspettative, li catturavano e coinvolgevano come mai si sarebbero aspettati. Di giorno in giorno il clima sembrava a poco a poco distendersi, si cominciava a sentire continuamente il bisogno di cercare, conoscere e provare qualcosa di nuovo, di diverso, e oramai tendevano a fare più domande gli alunni agli insegnanti che viceversa. Si era creato un nuovo circolo virtuoso, una ricerca dell’instabilità in opposizione alla piatta routine di prima. Quella che era cosa di pochi giorni prima sembrò improvvisamente il vecchio ricordo di una scuola che metteva i brividi solo a pensarci. Gli insegnanti stessi sembravano diversi, o forse ormai lo erano. Col passare del tempo, ricevendo complimenti da quelli che anche per loro erano punti di riferimento ed esempi irraggiungibili, a cui magari avevano aspirato ma anche rinunciato molto tempo prima, trovavano una motivazione che loro stessi credevano di aver perso per sempre. Si dedicavano ora con entusiasmo alla classe, alle singole persone che la componevano, trasmettendo interesse e passione ad adolescenti che non sapevano ancora chi erano ma che prima o poi avrebbero scoperto il loro ruolo.
Insomma, tutto era rinato dalle ceneri di un rogo che in qualche modo sembrava ora più che mai essere stato necessario. Le cose non sarebbero potute andare avanti così, certo, ma chi ci pensava e, soprattutto, chi aveva voglia di cambiarle prima? Di certo Riccio, Tartaruga e Lumachina, che per loro carattere reagivano con rabbia e chiusura alle umiliazioni subite, con quell’atteggiamento non avrebbero mai potuto trovare le risorse per innescare un cambiamento di questo tipo.
Poi però cavalcarono, pure con un pizzico di orgoglio, le loro nuove occasioni di rivincita: Riccio durante l’intervento di un noto scrittore, una volpe, imparò che i suoi aculei “sono simbolo di molti pensieri acuti che, assieme, producono un’unica grande e profonda conoscenza della realtà, che solo i ricci hanno” e cominciò a studiare filosofia; Tartaruga rispose con zelo a tutte le domande che il preside di una importante università pose agli alunni per testare l’avanzato metodo scolastico, salvando l’immagine della scuola e guadagnandosi unanime rispetto e gratitudine; Lumachina invece tirò fuori la sua sensibilità per l’arte di qualunque natura, per le emozioni e la bellezza, coinvolgendo la sua classe anche in attività extra-scolastiche di ricerca e sperimentazione sui suoni (condotte dalla mamma) che portarono ciascuno dei partecipanti alla scoperta di capacità creative delle quali non sospettavano l’esistenza.
C’era una volta un albero. Il suo nome era Acero, perché, a voler essere precisi, era un Acero di monte (o Sicomoro), anche se nessuno dei suoi amici aveva mai usato il suo nome per esteso: tutti infatti preferivano chiamarlo Ace, o anche solo Ce, e questo da quando si conoscevano, quindi, a dire il vero, da sempre. Ritti sul suolo inclinato di una vallata, crescendo vicini l’uno all’altro, Ace e i suoi amici avevano formato, negli anni, un boschetto molto affiatato.
Poco distante da loro vi era un paesino il cui centro, grazie al vecchio campanile della chiesa di San Rocco che spuntava tra i tetti e i vicoli, era il punto di riferimento principale per tutte le altre casupole sparse che costellavano il paesaggio. Il tutto poi poteva dirsi protetto dai maestosi pendii tutti intorno, con chiazze di roccia come macchie di colore schizzate qua e là tra le nuvole di chiome.
Venendo ora ad Ace bisogna dire che, pur essendo un albero, aveva delle qualità caratteriali ben precise: infatti, anche se non lo si sarebbe mai detto vedendolo scherzare con i suoi compagni, era di base un tipo molto timido e introverso; certo, con loro stava bene e poteva essere se stesso in ogni momento, ma gli ci erano voluti anni prima di sentirsi veramente libero e spontaneo. Questo proprio per com’era lui, estremamente riflessivo, con molte paure e blocchi di varia natura che gli altri, a differenza sua, sembravano non avere.
Per ciascuno di loro era lo stesso: si volevano tutti un gran bene e il passare degli anni, e dei decenni, sembrava non avere altro effetto che rafforzare il loro legame. In più, la lenta e costante crescita delle loro dimensioni li portava ad essere sempre più vicini l’uno all’altro, tanto che poco a poco alcuni di loro riuscirono a sfiorarsi con i rami e le radici.
Quando giunsero ad essere alberi maturi, ciascuno con la propria corteccia robusta, conoscevano tutto l’uno dell’altro e condividevano ogni esperienza della vita con uno spirito al plurale e una sana, costante ironia. Insomma, c’era quell’energia positiva che, come un benefico elisir, sanava anche gli inevitabili momenti di noia o di disaccordo che a volte rischiavano di rovinare qualche bella giornata.
Più passava il tempo, meno ognuno di loro sarebbe riuscito a pensare ad un’esistenza diversa da quella che conducevano, in compagnia di quei quattro legni contorti che sapevano trasformare quel posto nel miglior posto al mondo in cui stare. Nel frattempo però, l’indole riflessiva e profonda di Ace lo portava a pensare e ripensare al presente, al passato, al futuro… insomma, a tutto. Qualche volta gli capitava, in particolare quando calava il silenzio prima di addormentarsi, che gli salisse anche un po’ di paura: cos’avrebbe fatto se un giorno avesse perso i suoi amici? Non aveva mai provato la solitudine, neanche da piccolo, e considerato quanto stava bene con loro, solo a pensarci si spaventava al punto da farsi scappare qualche lacrima. La cosa, per fortuna, durava poco e spesso riusciva ad addormentarsi ridacchiando tra sé perché gli veniva in mente qualche battuta sugli uccelli fresca della giornata appena trascorsa.
Un giorno, verso la fine dell’inverno, accadde però qualcosa di terribile e inaspettato.
Arrivarono degli uomini armati di motoseghe (cosa che non avrebbe dovuto spaventarlo: ogni anno, infatti, gli uomini venivano a potare alcuni dei suoi amici), ma stavolta queste erano più grandi e rumorose del solito, e non lasciavano presagire nulla di buono. Che cosa stesse cambiando, per sempre, fu chiaro nelle ore successive: Ace si sentì, per un tempo indefinibile, uno spettatore passivo, che non poteva parlare e che non poteva fare nulla.
L’ambiente intorno a lui si trasformò, in poco tempo, in un grande campo erboso liscio e spoglio, con delle piazze di terra scura qua e là.
All’improvviso, le giornate divennero tutte come quell’istante in cui ogni sera, in silenzio, al buio, prima di addormentarsi, rimuginava sulle cose della vita lasciando che il pensiero vagasse tra il bello e il brutto, senza confini; come se quell’unico momento, fatto di riflessioni caotiche e incontrollate, si fosse ora dilatato fino a divenire notte e giorno e primavera, estate, autunno, inverno.
La sua nuova e quanto mai temuta esistenza fu da subito impregnata di quel nuovo clima gelido dovuto al senso di solitudine. Quella primavera, anche se dirlo è superfluo, i suoi fiori furono molti di meno e, a voler giudicare il suo aspetto, si sarebbe detto che fosse affetto da una brutta malattia… Ciò nonostante, in breve tempo molte persone cominciarono a fare di quel prato, che divenne tutto verde e regolare, il loro luogo ameno per leggere, giocare, chiacchierare, banchettare, rilassarsi o dormire.
Nessuno di loro sembrava percepire la grande sofferenza che sciupava il grande albero all’ombra del quale si riposavano. E questo perché ciascuno di loro era concentrato solo su sé stesso. Come accade spesso anche tra noi stessi umani, d’altronde.
Giunse presto anche la fine dell’autunno successivo. Quando anche le ultime foglie erano ormai cadute, e i rami aspettavano solo di essere coperti di neve da un momento all’altro, accadde però qualcosa di imprevisto: un bambino si affacciò all’entrata del parco e, a grandi passi, cercando di non inciampare sui mucchi di foglie che si erano depositate ai piedi del grande albero, gli si avvicinò, la mamma pochi passi indietro, e lo abbracciò.
Sembrava non volesse lasciarlo più. Rimase lì per un certo tempo e Acero sentì che da quel cappottino, da quelle manine e da quella piccola guancia rossa premuta sulla corteccia, si sprigionava un calore così profondo e benefico che lo avvolse e lo fece sentire piano piano più leggero, forse un pochino consolato. Non avrebbe potuto dire come stava di preciso, ma era certo che non si sentiva così da molto, molto tempo. Infine, prima di staccarsi, la sua vocina nel freddo sussurrò: Ho espresso il mio desiderio, ciao albero!”.
Trascorse anche il tempo della neve, durante il quale Acero aveva ripensato spesso a quell’inaspettato gesto ricevuto dal piccolo sconosciuto: non poteva dimenticare il calore che aveva provato. Si stupiva di come la cosa non lo avesse lasciato per niente indifferente. Da quel momento, infatti, gli sembrava fosse cambiato il suo modo di vedere le cose: si sentiva meno appesantito, non era più oppresso dal senso di vuoto che fino a quel momento aveva svuotato ogni cosa di bellezza e di significato e, a pensarci, di quel potenziale ironico che sembrava non mancare mai quando stava con i suoi amici.
A loro continuava a pensare tutti i giorni, e come avrebbe potuto non farlo? Ma improvvisamente riusciva di nuovo a ricordare le battute che li avevano fatti tanto ridere. Ora quel pensiero non era più uno strazio, ma un sollievo. Sapeva ridere ancora. Da quel giorno, inoltre, aveva cominciato addirittura a sentirsi meno solo, anche se, di fatto, non era cambiato niente attorno a lui. Forse aveva finalmente superato il senso di abbandono, di fine, dal quale non aveva mai sperato di riuscire a risollevarsi? Quel piccolo gesto aveva scompigliato l’ordine stagnante delle cose e, con una forza impossibile da descrivere, era riuscito a risvegliare in lui una vita che era sicuro gli fosse stata portata via per sempre, in quel giorno grigio di lame e rumore.
La primavera che ne seguì fu, infatti, come una nuova prima esperienza, e gli sembrò di scoprire con stupore un sacco di cose verso le quali provava, inaspettatamente, un enorme senso di gratitudine: cose come le api che affollavano numerose e ordinate i suoi bei fiori bianchi, gli uccelli che nidificavano innamorati tra i suoi rami e persino gli umani, grandi e piccoli, che trascorrevano un po’ del loro tempo dalle sue parti.
Ma ora, io che ti sto raccontando la storia di Ace, mi rivolgo un attimo a te che stai leggendo e ti chiedo: per caso, ti è mai capitato che un giorno, guardandoti attorno in un ambiente familiare (che quindi conosci benissimo), tu abbia avuto come l’impressione che ci fosse qualcosa di diverso ma senza riuscire a capire cosa?
Ecco, una mattina Acero provò esattamente questa sensazione e non riusciva proprio a capire di che cosa si trattasse!
Ma dopo un po’, come succede anche a noi, all’improvviso: ecco! Ma come aveva fatto a non accorgersene subito?
C’era un albero! Sì, un albero, davanti a lui, e anche bello grande! Ma quando era spuntato? Come aveva fatto a non averlo mai visto, dato che era già grande!?
Un sacco di domande come queste cominciarono a frullargli nella mente. Doveva dire qualcosa a quello sconosciuto dall’aria aperta e cordiale, a quel suo simile che non riusciva a ricondurre ad una specie ben precisa perché nel suo aspetto coesistevano caratteristiche molto diverse in un’inspiegabile e perfetta armonia. Chi era? Cos’era?
Stava per parlare al curioso nuovo arrivato quando, d’un tratto, un’altra presenza fece la sua comparsa nel parco catturando subito la sua attenzione: era un saltellante giovanotto che Ace si rese conto subito di conoscere fin troppo bene. Teneva per mano un anziano signore, il quale si lasciò condurre dal piccolo fino al suo tronco. Questa volta però il bambino lasciò che fosse il nonno (così lo chiamava) ad avvicinarsi: questi, dopo averne scrutato con grande attenzione il fusto e i rami, allungò la mano per accarezzare la corteccia con un gesto deciso, come se volesse accertarne la robustezza. Poi, dimostrandosi compiaciuto come per la buona riuscita di un suo strano esperimento, si girò verso il nipote. L’altro guardò il nonno e per un attimo non si mosse. Poi, rosso in volto, balzò verso Acero per abbracciarlo di nuovo, ma questa volta piangendo sommessamente tra sé. Poi, senza dire nulla se ne andò con il nonno.
Non dovete dimenticare che gli alberi sanno cogliere con chiarezza tutti i sentimenti provati da qualsiasi essere vivente, anche quelli che noi umani cerchiamo di nascondere o mascherare. Acero infatti avvertiva la sofferenza nel cuore energico di quella creatura che, nel suo piccolo, gli aveva dato così tanto, ma avvertiva anche una gioia, una immensa soddisfazione. Non capiva il contrasto che proveniva da quell’abbraccio così stretto, ma, diciamolo, un abbraccio fa sempre sentire meglio, sia chi lo dà che chi lo riceve, e fu così per entrambi. Tuttavia, doveva cercare di capire cosa volesse dirgli il piccolo questa volta.
Si ricordò del suo nuovo misterioso vicino che nel frattempo, non si sa come, sembrava essersi avvicinato ancora di più, tanto che qualcuno si era legato un’amaca ai due tronchi e, su questa, si stava già schiacciando un pisolino. L’umano in questione sembrava piuttosto vecchio, ronfava discretamente e non gli mancava nemmeno un libro aperto capovolto sulla pancia, che evidentemente pensava gli sarebbe servito per addormentarsi.
Acero, ancora pieno di domande che non avevano ricevuto alcuna risposta, fece per parlare ma neanche questa volta ebbe il tempo di dire alcunché perché fu l’altro a cominciare per primo.
«Ciao Ace!» disse cordialmente l’albero misterioso, «Io sono il tuo albero, piacere di conoscerti!»
«Ciao… Albero! Ma, aspetta: il mio albero? Cioè… chi sei? Io non mi sono nemmeno accorto di quando ti hanno piantato! E poi non mi ricordo di averti visto crescere, e ho notato solo ora quanto tu sia vicino a me! Ok che in questo periodo sono preso da così tanti pensieri che… però… Ma aspetta, tu conosci persino il mio nome! Forse sono diventato pazzo. Scusa se ti ho ignorato per tutto questo tempo…»
«No, scusami tu, è che adoro gli inizi teatrali: lanciare una frase d’effetto che non si capisce per creare un po’ di mistero, beh, rende il tutto più interessante! No, non sei pazzo, tranquillo, semplicemente io non sono mai stato qui… sono arrivato stamattina!»
«Ah ecco, va bene pensieri, ma… AR-RI-VA-TO STAMAT-TI-NA ?!??»
«Ahah!!! Sì! Dunque, ora ti spiego: io sono il tuo albero, perché mi sei stato affidato. Vengo da Feeria e gli umani non possono vedermi; gli animali sì, ma conoscono il mio segreto e per non far preoccupare gli umani ritengono conveniente evitare di appoggiarsi ai miei rami, o peggio, farci il nido, così si limitano a volarmi o camminarmi intorno.»
«Feeria hai detto? È il luogo di fantasia che sento nominare nelle storie che vengono lette ad alta voce ai bambini, qui, sul prato?»
«Esatto! Le fiabe e i racconti in cui si parla di Feeria in realtà non piacciono a tutti, perché ci vuole una certa sensibilità per apprezzarle e, soprattutto, bisogna considerare che il più delle volte per arrivare al lieto fine si passa per luoghi ed esperienze tutt’altro che piacevoli. Come nella vita del mondo di qua, d’altronde.»
«A chi lo dici…»
Ace si fermò un momento, lasciò che un impeto di commozione scaturisse silenziosamente come una lacrima, poi riprese:
«Scusami, non l’ho ancora superato del tutto, ma forse sai di cosa si tratta…»
«Lo so bene, e posso assicurarti che la perdita di chi amiamo non si supera mai, si impara solo a conviverci. Bello è quando il ricordo diventa una cosa che dà energia, anziché toglierla, ma ci vuole tempo e soprattutto la fiducia cieca nel fatto che la vita ha un senso, anche se non si vede o non è chiaro. È difficile, e lo è per tutti in quei momenti.»
«Già. Ho pensato spesso, ultimamente, che la mia vita non avesse più un senso. Ma, a dire il vero, qualcosa è cambiato con l’abbraccio di quel bambino: è cambiato il mio stato d’animo e ho cominciato a vedere un po’ di luce.»
«Sì, quel bimbo è davvero molto speciale.»
«Lo conosci?»
«Sì, ma da non molto tempo prima di te in realtà. È stato lui a chiamarmi quando ha desiderato profondamente di fare qualcosa per te. Neanche lui sa veramente cosa ha mosso per te nel suo mondo e nel mio! Non se ne vedono spesso di desideri d’amore così forti, tanto meno accompagnati da una fantasia come la sua. Da addetto ai lavori, posso proprio dire che quel piccolo è stato capace di fare un autentico capolavoro!»
«Sapevo che c’era… qualcosa in quel ragazzino. Ma, spiegati meglio: di umani buoni al mondo ce ne sono, ma cosa c’entra il fatto della fantasia? Di questo “non so cosa” che avrebbe generato un capolavoro? In fondo, ogni gesto d’amore è un capolavoro…»
«Certo, sono proprio d’accordo! In questo caso però lo è ancora di più: vedi, quel tipetto saltellante ha una grande sensibilità nei confronti di tutte le forme di vita, e gli alberi non fanno eccezione, anzi, per loro nutre un affetto particolare. A differenza di tutti gli altri suoi coetanei, infatti, non voleva mai andare al parco, perché sapeva che per crearlo avevano tagliato la maggior parte degli alberi che c’erano. Ma passeggiando, da fuori, ti guardava e rimaneva sempre affascinato dalla tua bellezza che spiccava sul tappeto verde. Qualche tempo più tardi, una sera per caso, udì i suoi genitori parlare di un nuovo progetto per il parco, che prevede anche il tuo abbattimento. Vogliono ricavare da quest’area un grande prato liscio e libero da ogni ostacolo, per farci, dicono, tantissime cose utili a tutti. Il piccolo scoppiò in pianto e poi, dopo inutili tentativi di consolazione da parte dei suoi genitori, si chiuse in sé stesso. Però ha cominciato a leggere, tanto, e non solo le storie di fantasia che già divorava con avidità; cercò di imparare quante più cose possibili sugli alberi. In particolare, cominciò a riconoscere le varie specie arboree chiamandole per nome, così scoprì che tu sei un Acero e, per la precisione, un Acero di Monte.»
«Non sapevo di essere proprio un Acero di Monte. Ma davvero ha fatto questo per me?»
«…Ha scoperto così che il tuo è un legno molto pregiato, e che gli umani lo usano per la costruzione di ottimi strumenti ad arco.»
«E questo cosa c’entra? Cosa vorresti dirmi?»
«C’entra eccome! Si dà il caso che il piccolo sia un promettente allievo della classe di violino di questa città e che suo nonno sia un liutaio. Quest’ultimo vive lontano da qui e si vedono raramente. Il nipote lo ha chiamato subito e gli ha spiegato il suo profondo desiderio: voleva solo salvarti la vita, facendo sì che almeno un albero, il Suo albero, non morisse per sempre. Il nonno lo ha ascoltato, come i nonni fanno con i nipoti e come sa fare chiunque sia abbastanza sensibile da riconoscere i sentimenti veri, urgenti e irrinunciabili. Fu quello il momento del primo abbraccio, la prima volta che accettò di uscire di casa che non fosse per andare a scuola.»
«Forse comincio a capire, ma non mi fa sentire meglio, anzi: mi stai dicendo che anch’io sarò abbattuto come tutti i miei amici… è terribile!»
«Sì, ma questo in fondo già lo sapevi: è nella natura di tutti gli esseri viventi nascere e poi morire, chi prima e chi dopo. L’importante è il senso che si è saputo trovare e dare alla propria vita prima di morire, se si è avuto abbastanza tempo per cercarlo, trovarlo e agire di conseguenza. Per gli umani, a dire il vero, è un po’ più difficile, perché diventando grandi devono resistere al rischio di imparare a fare come la maggior parte di quelli della loro specie che passano la loro vita procurando danni a loro stessi e alla natura. Gli altri animali e le piante sono molto meglio adattati e vivono naturalmente in armonia con il sistema che li circonda. Sono immuni all’orgoglio, e non è cosa da poco. E poi, è importante anche come si vive la morte. So che sembra un controsenso, ma non lo è affatto.»
«Ho paura… tanta paura…»
«Siamo tutti disarmati di fronte alla morte, non la conosciamo per niente. Eppure tutti la incontreremo, prima o poi, ed è la cosa che ci accomuna più di ogni altra.»
«Sì, va bene, ho capito che ci rende tutti uguali, ma la viviamo sempre da soli, ognuno per sé!»
«È vero, possiamo sentirci più o meno soli nell’andare incontro alla morte, e ciò non dipende dal fatto di avere qualcuno accanto, oppure no, quando succede. Intendo piuttosto: qualcuno ha mai pensato a noi con amore durante la nostra vita? Quel qualcuno c’è sempre! Per buona parte della tua vita, ad esempio, hai avuto i tuoi amici, ed essi, fino alla loro partenza, hanno avuto te. Siete stati bene e il tuo spirito non ha mai sofferto fino al momento in cui li ha persi. Poi è arrivato quell’abbraccio, che ha sanato il tuo dolore. Ma il tuo piccolo ti ha fatto un regalo ancora più speciale, usando i tre poteri più grandi che, già da un po’, ha tra le mani: l’amore, l’arte e la fantasia. Lui crede con tutto se stesso in questi tre poteri, e le cose accadono!»
«Dunque, ecco che sei arrivato tu. Ho capito?»
«Sì. Ma spetta sempre e comunque a te la scelta. Io sono stato voluto qui, e ora, per portarti con me a Feeria, la mia terra, che è il mondo dell’immaginazione. Il tuo spirito positivo continuerà comunque a vibrare nel tuo legno che, invece di essere sprecato, diventerà un violino lavorato dalle mani di un artista e sarà suonato dalle mani di un altro artista che ha voluto abbracciarti e non lasciarti solo nel momento della partenza, regalando alla tua anima un’eternità nel mondo di Feeria e, al tuo legno, l’eternità di uno strumento capace di esprimere e trasmettere emozioni nel mondo terreno.»
«Ho ancora paura, ma mi sento anche carico di amore per chi mi ha amato così tanto anche senza conoscermi: farò della musica stupenda, perché sarò all’unisono con la sua grande anima! Non avrei mai immaginato una partenza speciale come questa, e se ripenso ora alla mia vita, al tempo trascorso con i miei compagni e a quello che mi aspetta ora, è stata e sarà un vero capolavoro!»
Il tipo, che fino ad un secondo prima ronfava di gusto sull’amaca, cominciò a stiracchiarsi emettendo come dei miagolii. Poi scese piano dal suo giaciglio stando attento a non capitombolare a terra.
«Ah ma toglimi una curiosità, lui chi è?» chiese Ace.
«Oh scusa, hai ragione, non te l’ho ancora presentato: lui è il mio contadino, quello che mi ha tirato su da quando ero un germoglio. Quando ha saputo che sarei venuto nel mondo di qua ha voluto venire anche lui, per poter raccontare ai nipoti di essere stato anche qui. Non mi andava, ma alla fine ho ceduto. Mi sono fatto promettere che se ne sarebbe stato tranquillo a dormire per tutto il tempo, perché, a dirla tutta, è un po’ maldestro e grossolano (il vecchio gli lanciò un’occhiataccia), ma bisogna ammettere che è stato bravo dai!
«Dunque te ne vai? Ve ne state andando?»
«Noi no. Se ti va, ce ne stiamo andando!»
«È già il momento? …non vedo nessuno in arrivo.»
«Lo saranno tra poco, ma c’è un discreto viaggetto da fare ed è meglio che ci avvantaggiamo sui tempi. E poi, non vorrai perdere l’occasione di salutare i tuoi vecchi compari! Abbiamo invitato anche loro al banchetto di accoglienza! Ti ho già detto che a Feeria tutto è possibile?»
«Sono senza parole…»
«Non servono»
«Va bene, andiamo! Ehi, scusa…»
«Accidenti! Potresti cortesemente slegare l’amaca? O vuoi vederci inciampare e cadere per terra come due babbei??»