ELOGIO DELL’ASSISTENZA (prossimamente)

Appunti di esperienze infermieristiche e umane fatte nei primi mesi di vita lavorativa hanno preso via via la forma di un breve percorso, attraverso il quale il lettore conosce (o rivive) la vita e la morte, con il ruolo di chi, assistendo per professione e, soprattutto, per passione, si rende conto del valore incalcolabile di quanto riceve da coloro ai quali è chiamato a dare aiuto e dignità.
È dunque un grazie agli eroi sconosciuti che, prima o poi, nel corso della nostra vita, siamo tutti chiamati ad essere, introdotto da un personale elogio dell’“arte dell’assistenza” che vuol essere la dichiarazione d’amore per un ruolo che, agito per professione o meno, deve essere, secondo l’autore, fiero di sé.

I FOLLETTI DELLO SCIACQUONE

È di certo esperienza vissuta da tutti almeno una volta nella vita, a casa propria o in un qualsiasi luogo pubblico, quella di trovarsi nel momento del bisogno e dover correre al gabinetto. Quasi altrettanto comune è quella di trovare, una volta giunti a destinazione, che cosa? L’acqua da tirare! Capire che ci si trova in una situazione di questo tipo è estremamente elementare, anche grazie ad alcuni indicatori specifici che sono stati isolati nel tempo e ci aiutano a individuare con una discreta precisione la natura del problema: presenza nel water di materiale organico, quasi sempre galleggiante, dalla consistenza solida o semi-solida; presenza di un tappo di carta igienica stropicciata e sciupata che copre tutta la superficie interna della tazza; acqua di colore giallo, verde o marrone; presenza di un prepotente odore acido nell’aria, comunemente detto “puzza”, che bacia i nostri umani centri olfattivi.

Nella speranza che questo breve prologo abbia evaso un’esaustiva risposta alla domanda di chiarezza circa il fatto in questione, si va ora a denunciare, con grande rammarico, l’imperituro problema che si associa all’inatteso incontro con un water non propriamente pulito e ordinato: l’accesso di collera. Ci si arrabbia insomma, si perdono le staffe! A causa del senso di schifo, di indecenza, talvolta preparato dalla puzza che può avere invaso anche i locali adiacenti, non si può resistere. Ma non è finita qui. Non è sufficiente alterarsi, tirare l’acqua, fare ciò che si deve fare e poi, azionato nuovamente lo sciacquone, dire: «Ma sì dai, per una cosa così! Ormai è acqua passata!». No, certo che no! L’essere umano è per sua natura iracondo, ha l’accusa facile e si scaglia subito alla ricerca del colpevole di quella dimenticanza imperdonabile, inaccettabile, disonorevole. Ricerca per modo di dire, perché a prendersi la colpa sono quasi sempre i più piccoli e gli adolescenti. «Goffredo, ti sei dimenticato di tirare l’acqua!!!», si sente sempre tuonare dal bagno, e le scuse del piccolo non servono mai a nulla. Che dica che non è stato lui ad andare in bagno perché è appena tornato dalla piscina e l’aveva fatta là, o che neghi dicendo che lui l’acqua era sicuro di averla tirata, non fa differenza: «Sono tutte scuse, non c’è una volta che tu lasci il bagno in ordine. Vergognati!» O ancora «Vedremo quando andrai via coi tuoi amici o con la tua morosa che figure farai, ti rispediranno a casa chiedendoti chi ti ha insegnato a stare al mondo! Senti che tanfo, mamma mia! Vergogna!!!».

Insomma: litigi familiari, energie negative, scontri generazionali, malumori e malelingue tra colleghi, amicizie rotte per sempre. Ma anche fidanzamenti o, peggio, matrimoni irrimediabilmente naufragati a causa di uno sciacquone non azionato, soprattutto se dopo “quella grossa”.

Alla luce di tutto questo, non è che da considerarsi un problema grave, da non sottovalutare, al quale bisogna trovare al più presto una soluzione!

Fu così che un bel giorno decisi che ci avrei messo del mio per venirne a capo, pensando che un contributo in favore di tale causa, per quanto piccolo, non potesse guastare. Ho iniziato la mia ricerca, la quale mi portò, in un percorso durato anni, in lungo e in largo sulle terre emerse e fino alle più remote profondità dei sette mari. Molte volte ho pensato di rinunciare, devo ammetterlo, ma a dirmi che non potevo mollarla (la ricerca, si intende) era sempre la consapevolezza che una verità non rivelata c’era, e prima o poi l’avrei portata alla luce. Tanta tenacia spesi, e di tempo ancor di più! Alla fine, inaspettatamente, mi ritrovai in mano un documento, e ci misi poco a rendermi conto che era proprio la prova che cercavo! “Finalmente!”, mi dissi dopo averlo decifrato, bisognava renderlo pubblico il prima possibile per salvare l’umanità dallo sfacelo. Era una specie di pergamena che trovai in una biblioteca nascosta tra le rocce di un golfo, in una caverna piuttosto buia che si apriva in fondo a un lungo cunicolo. Non so dire il nome del luogo in cui mi trovavo, perché quando vi giunsi ero troppo stanco e, quando ebbi davanti il manoscritto, fui troppo felice per memorizzare dell’altro. Memorizzare, sì. Non ho potuto portarlo con me (anche se sarebbe stato il mio desiderio più grande) perché a vegliare su quello e sui moltissimi altri testi contenuti in quel misterioso e gigantesco archivio nel quale mi ero imbattuto c’era una presenza curiosa, di bassa statura e dalle orecchie a punta. Sembravano folletti, almeno per quanto mi consentiva di vedere la penombra, che, in quell’antro dove solo il dolce sciabordio dell’acqua faceva eco sulle pareti rocciose, si muovevano con passo muto e lesto da una parte all’altra: alcuni lungo le file di libri, altri appesi a delle funi a lustrare la roccia; alcuni intenti nello studio di qualche manuale, altri a comporre miniature e altri ancora a tuffarsi nell’acqua per pescare. Insomma, erano proprio dappertutto e sembravano estremamente indaffarati. A dire il vero non li notai subito, infatti, un po’ intimorito e un po’ emozionato al pensiero di essere solo in quel contesto surreale, mi mossi inizialmente con circospezione per una buona mezz’ora sul sentiero che fiancheggiava una scaffalatura (se così vogliamo chiamarla). Poi, a un certo punto, l’occhio mi cadde su una costola di un libro color marrone scuro, molto sottile, sulla quale era raffigurato un vespasiano bianco. La mia mano lo afferrò d’impulso e lo esaminai: era solo una copertina rigida che conteneva un unico foglio sul quale c’era un testo scritto in una lingua incomprensibile. Capii subito, però, che la cosa era interessante perché sotto al titolo era raffigurato un omino che tirava la catenella dello sciacquone, e sopra a questo una sbarra rossa molto marcata che tagliava l’immagine trasversalmente. “Divieto di tirare l’acqua?”, pensai tra me. In quel momento, neanche a farlo apposta, un omino come quello dell’immagine mi si avvicinò, come se avesse colto il mio desiderio di comprendere. Non mi sentii impaurito o minacciato ma, al contrario, rassicurato dalla sua presenza e ben accolto. Prima che potessi dire qualcosa mi salutò con un cenno del capo, al quale risposi in egual modo, quindi iniziò a spiegarmi (nella mia lingua!) che cosa avevo in mano. Solo in quel momento feci caso agli altri esserini simili a lui, che però erano troppo occupati per notare la mia presenza. In sintesi, mi disse che non avrei potuto portare via il manoscritto, il quale faceva parte della sezione “Scuola Esseri Umani”, ma che lui me lo avrebbe letto traducendolo nella mia lingua; mi disse inoltre che quel documento era una matrice, ossia uno dei testi sorgente che servivano da linea guida ai folletti incaricati di impartire lezioni agli esseri umani. Nel caso specifico, si trattava della spiegazione dettagliata del motivo per cui gli esseri umani dovevano smetterla di lanciarsi reciprocamente delle offese attraverso le quali si paragonassero l’un l’altro a escrementi; fino a che gli umani non avessero imparato la lezione, i folletti incaricati non avrebbero permesso ai soggetti di tirare l’acqua dopo aver evacuato, distraendoli o impedendo allo sciacquone di funzionare. Dal mio zaino presi carta e penna per fissare il tutto con qualche appunto, con l’intento di riscrivermelo meglio una volta tornato a casa. Era proprio quello che cercavo, non aspettavo altro!

Lesse, e presi nota. Quindi gli chiesi di rifarlo, questa volta solo per ascoltarlo senza dover concentrarmi sulle annotazioni. Mi disse poi che non c’era altro di strettamente inerente all’argomento, e ci credetti. Quello bastava e avanzava. Una lezione indice della grande saggezza di quel popolo, di cui non conosco il nome, che ci educa e ci assiste nel quotidiano senza mai farsi vedere. Molte altre cose sarebbero state da approfondire sul loro affiancamento agli esseri umani, ma al momento avevo concluso la mia ricerca più urgente e, con un cordiale saluto e un accorato ringraziamento, mi congedai. Sai mai che in futuro torni sui miei passi per scoprire di più su di essi e sul loro operato! Intanto vi riporto qui di seguito la stesura in bella copia del documento di cui vi ho parlato. Oltre alla grande soddisfazione che ne deriva, la trovo una grande lezione di vita per me e, spero, anche per voi.

LECTIO FECAL

Mario Folena

Sì, proprio così!

Ma analizziamo innanzitutto la materia in oggetto: l’escremento propriamente detto è quello con una forma ben definita, che potremmo descrivere come un cilindro abbastanza regolare dalla superficie più o meno ricca di solchi e scissure (come il cervello). Questo differisce dalla “cacca molla” che è l’escremento nel suo stato più morbido, malleabile, e anche dallo “sguaràus”, che indica nello specifico una consistenza che sta tra la cioccolata calda e il caffè che, dunque, si adatta, o meglio cola sopra la superficie sulla quale precipita. Introdotto ciò, possiamo apprendere la prima lezione fondamentale: non importa la forma, il colore, l’odore o il nome diverso, perché in fondo la sostanza è la stessa. È o non è una garanzia? Ci si può fidare!

E non solo da un punto di vista, diciamo così, fisico-chimico. Infatti se a noi fosse chiesto di definire la merda come buona o cattiva, cosa risponderemmo? Forse il primo pensiero dice cattiva, ma per un pregiudizio che associa buono o cattivo al senso del gusto, come vale per i cibi. Ci rendiamo conto di come la mente lavora a scapito delle cose naturali? In realtà la cacca è sempre buona, ci vuole bene! Eh sì!! Provate voi a non fare la cacca per tanti giorni… vi sentirete scoppiare, non potreste continuare a vivere in quel modo! Noi, come gli esseri umani, ne dobbiamo produrre sempre, a ciclo continuo, dobbiamo diventarne una centrale erogatrice, e dall’altra parte lei, per il nostro bene, nasce, cresce, matura e poi va per la sua strada, magari a concimare il terreno e quindi a fare del bene anche all’ambiente. Inoltre, con le diverse forme, colori e odori che può assumere ci dice com’è il nostro stato di salute e come sta il nostro intestino. Stupefacente! Chi glielo fa fare?! Lo fa per noi e basta, e spesso in cambio non riceve nemmeno un grazie! Facciamoci tutti un esame di coscienza.

Certo non si può non fare un breve accenno a quegli stronzi un po’ stronzi che si mimetizzano sul marciapiede e infilano nelle fessure delle suole delle scarpe alla prima distrazione: è vero che arrecano agli umani un danno e un motivo per imprecare… ma è tutto reversibile, e alcuni dicono porti anche fortuna! Insomma, la cacca è buona e la sua funzione è fare del bene: seconda lezione.

La terza invece ha a che fare con lo stronzo in sé, quello bello solido, poiché esso ci insegna che se siamo troppo spigolosi e duri (per esempio, di carattere), la gente tende ad eliminarci il prima possibile dalla propria vita perché facciamo male e diamo fastidio. Molto meglio essere morbidi, con una forma e un carattere, sì, ma dalla superficie liscia e che si adatta anche ai passaggi stretti della vita, essere flessibili ed elastici. Per fare questo, cioè per stare bene prima di tutto noi stessi ed essere flessibili, (lo stronzo lo fa!) bisogna bere molta acqua! Quarta grandissima lezione!

 

 

Io devo dire in tutta sincerità che l’aver cambiato punto di vista mi ha sconvolto: una cosa che prima consideravo nulla ora è diventata qualcosa di cui avere rispetto, qualcosa di importante. Ma non è finita qui! C’è ancora una lezione, una lezione di furbizia, astuzia. Si noti come lo stronzo si comporta nelle diverse occasioni della vita: si è abituati a modificare quotidianamente i propri comportamenti in funzione della necessità che ha la cacca di venire al mondo (interrompiamo momentaneamente quello che stiamo facendo, o subito o in differita, per recarci al bagno) ma ci sono dei momenti in cui lo stronzo si fa furbo, veloce, subdolo. Direte voi, si fa un vero pezzo di m…. A dire il vero non sempre, anzi, quasi mai! In questi casi infatti, quando ci coglie di sorpresa costringendoci ad essere attenti e pronti di riflessi, può dilettarsi semplicemente facendosi abito (o veste) di una scoreggia, con una piccola nebulizzazione di sostanza liquida che, portata dal gas, va a colorare come una bomboletta qualunque cosa incontri, oppure può uscire allo scoperto (o, meglio, al non ancora scoperto!) nella sua originaria forma liquida o semiliquida. In quest’ultimo caso si realizza la massima espressione della scaltrezza, della destrezza di cui è capace un escremento: è vero infatti che quella che a noi è sempre sembrata una occorrenza ahimè contemplabile in corso di qualche disordine intestinale è in realtà una gran voglia di divertirsi dell’escremento stesso. Sì ragazzi, è così e per un motivo molto semplice: lui SA BENISSIMO che se riesce a sgusciare via veloce, a scivolare fuori più svelto della chiusa dello sfintere (di cui poi può farsi beffe!) non ci sarà il solito tuffo in piscina ad aspettarlo, bensì un bel tappeto elastico! È!? …o non è!? Con questa, che potremmo dire la quinta e ultima lezione, in conclusione tiriamo le somme: quando diamo a qualcosa o a qualcuno dello s… , della m… o del pezzo di m… pensiamoci bene, perché in ogni caso stiamo facendo un complimento descrivendone bontà, utilità, gratuità o furbizia! Una volta capita bene questa lezione, trasmettetela alle persone umane come meglio sapete fare, ricordandovi che si comincia dando occasione a questi di rimanere il più a contatto possibile con l’oggetto in questione, impedendo che venga spedito subito nella vasca biologica. Buon lavoro ragazzi!

Mi scuso con il lettore per l’argomento di cui si è trattato ma ogni racconto nasce da una necessità, che in questo caso è remota, risale alla mia infanzia. Dovevo chiudere i conti con le innumerevoli accuse che mi sono state fatte ingiustamente, dovevo far emergere la verità. Ora mi sento molto meglio, è come se mi fossi sgravato di un peso. D’altronde, considerato che il racconto è un bisogno, come detto poc’anzi, quando scappa scappa.

Alessandro Navarin

CHIEDI ALLE STELLE

Francesca Lagonia

Forse era proprio quella la condizione ideale per farsi venire le idee migliori (e chi lo sa?), sta di fatto che solo in quel momento pensai di dedicare due dei quattro giorni di ferie d’ufficio ad un lungo giro in bici; anche volendo, infatti, sarebbe stato impossibile organizzare una qualsiasi pseudo-vacanza con gli amici considerato che la comunicazione delle suddette ferie mi era stata data con sole ventiquattr’ore di anticipo. A dire il vero, io odiavo andarmene in vacanza da solo, tuttavia non so come in quel momento, probabilmente a causa di uno strano effetto dei mirtilli sulle mia capacità di giudizio della realtà, quella mi sembrò improvvisamente una buona occasione per provare a superare questo mio limite.

Fu così che sull’onda di questo improvviso entusiasmo, prima che potessi tornare alle mie inutili paure cominciai a fantasticare sul nuovo progetto sapendo di non essere ne un ciclista allenato ne, tanto meno, di disporre di un credito illimitato. Dunque: «Perché prenotare da qualche parte? Ma no, via alla cieca! Un posto dove mangiare e dormire si trova sempre», mi dissi, anche se non era cosa da me. Ma fatto trenta, pensavo, potevo fare trentuno.

Zaino in spalla, poche provviste, qualche soldo, carta di credito e caricabatterie da viaggio. Destinazione: un parco regionale a qualche ora di distanza da casa mia, che, nonostante la relativa vicinanza, non avevo mai visitato. Montato in sella alle 7 del mattino, ridussi le soste al minimo. Per buona parte del tempo la mia vista si nutrì di argini, fiumi, ponti e campagne tra le quali sorgevano, sparsi qua e là, paesi e cittadine, ciascuno con il proprio santo protettore la cui rassicurante presenza si manifestava negli svettanti campanili.

Più o meno all’ora vespro stavo pedalando in un paesino il cui nome non l’avevo mai sentito. Poco prima, un cartello mi aveva segnalato di essere entrato nell’area del parco regionale, così avevo deciso che quel primo agglomerato urbano sarebbe stato un buon punto dove fermarsi per la notte. Sarei dunque ripartito il giorno dopo per le zone “incontaminate” alle quali avrei dedicato tutta la mattina per poi rientrare in serata. Si trattava di una modesta cittadina tagliata in due da un piccolo canale sul quale si allungavano numerosi ponti e ponticelli. In effetti per raggiungere l’area del parco regionale da qualunque direzione era necessario attraversare almeno un ponte (o fare almeno una nuotata, a seconda delle preferenze), perché si trovava nel bel mezzo della grande pianura polesana, una striscia di terra compresa tra i due principali fiumi che l’avevano originata. In queste zone non imbattersi in un corso d’acqua, grande o piccolo, era ed è impossibile. L’acqua infatti, oltre ad essere la madre di queste terre, nonché l’elemento grazie al quale vi si erano sviluppate una flora e una fauna di originale bellezza, rappresentava allo stesso tempo una delle principali fonti di reddito e uno dei principali rischi.

Percorrendo in bici, ma a passo d’uomo, le strade del paese, con gli occhi alla ricerca del posto giusto in cui fermarmi per chiedere informazioni, notai che a nessuno scappò (neanche per sbaglio) una qualche forma di saluto, un cenno del capo o una parola tipo “buonasera” o roba simile. Niente. Avrei volentieri pensato che stessi passando inosservato se non fosse stato che tutti mi guardavano e taluni addirittura mi seguivano con lo sguardo girandosi anche di centottanta gradi. Nonostante mi sentissi un tantino in soggezione, accettai il disagio come parte dell’esperienza, tanto lì nessuno mi conosceva e tanto meno attendeva il mio arrivo. Sarà il loro modo di studiare lo straniero, pensai, l'”osservazione silenziosa”.

Ad un tratto però, mentre stavo passando davanti ad un piccolo supermercato lungo un vicolo che portava in piazza, sentii chiamare il mio nome a gran voce. Con un brivido, dovuto un po’ all’idea di essere al centro dell’attenzione e un po’ al possibile rischio di fare una figuraccia se avessi risposto ad una chiamata rivolta ad un mio omonimo, mi voltai di scatto e riconobbi, istantaneamente, il volto più maturo di Gio, il mio storico compagno di banco delle elementari che, in quel momento, si sgolava e si sbracciava sul marciapiede.

«CIAO!! …e tu cosa ci fai qui?» esclamai sorridente prima che ci scambiassimo un abbraccio strettissimo.

«Io? Cosa ci fai tu qua! …e in bici poi! Ma, da dove vieni? Noi ci siamo trasferiti qua che stavo finendo la seconda media, ma noi due c’eravamo già persi di vista, mi sa…»

«É vero… e non ti ho più chiamato…»

«Neanch’io, ma è normale dai… quando si è due stronzi come noi, dico…»

«Ahahah!!! …Sì sono d’accordo, tu rimani sempre un esempio inarrivabile però…»

«Di simpatia?»

«No, di stronzeria! Manco sapevo che avevate traslocato… comunque ti vedo molto bene, davvero!», gli dissi, ed era vero.

«Grazie vecchio!»

«E i tuoi come stanno? Tutto bene?», ero molto legato anche ai suoi, al tempo.

«Beh, potresti chiederglielo di persona! Vieni a bere un caffè? Te lo offro volentieri, hai tempo?»

«In effetti sì, non ho programmi, sono venuto a fare un giro a mo’ di scampagnata in solitaria, per ritrovare me stesso… sai quel tipo di cose che si fanno quando non si ha di meglio da fare…»

«Weeeilàà!! Ma quanta ne è passata di acqua sotto i ponti… da quand’è che tu fai cose del genere? Grande!»

«Mah, in realtà da oggi! …nel senso, proprio, di oggi!»

«Ah ok! Ahah!!! Sei ancora tu allora, non mi preoccupo! No, a parte gli scherzi, io non mi sono mai sentito di fare una cosa del genere, ti ammiro, davvero! Allora dato che non hai programmi mi allargo e ti fermi per cena!!!»

«Cosa? Ma sei sicuro??»

«Ma scherzi? Sei mio ospite! I miei non avranno problemi, una persona in più non cambia nulla!! Dai, andiamo!»

«Che meraviglia! …grazie infinite!! Sono in debito…»

«Ma taci…»

«No, sul serio! Posso contribuire in qualche modo?»

«Sì con la tua presenza! Stai tranquillo.»

In effetti l’impressione non fu proprio che i suoi non aspettassero altro che una visita a sorpresa e, per di più, con invito a cena. Tuttavia parvero superare in fretta lo stupore e i primi istanti di panico per poi offrirmi una calorosa accoglienza.

«Non preoccuparti, i miei vanno sempre in ansia in questi casi. Ci vanno anche quando sono loro stessi a invitare qualcuno!», mi confidò poi Gio in salotto, «Ma sono felici che tu sia qui, di averti rivisto. Mia madre mi ha chiesto se secondo me ti è piaciuto quello che ha preparato, perché….»

Io lo rassicurai, la cena era stata un vero ristoro dopo la pedalata e averli rivisti mi aveva fatto davvero molto piacere. Prima di congedarmi, quando li ringraziai di persona, il padre di Gio mi chiese: «Ma aspetta, ora torni a casa? Hai un parente qua? Dove ti fermi a dormire?»

«Sì sì mi fermo in zona, pensavo al B&B vicino alla piazza, prima ho chiamato e mi hanno detto che di stanze libere ne hanno, quindi non mi ha prenotato, posso andare quando voglio… è stato gentilissimo.»

«Beh, non c’è la ressa in questo periodo in effetti…» fece sua madre, «ma se vuoi…»

«Già, se vuoi puoi fermarti a dormire da noi visto che non hai prenotato, che ne diresti?», concluse suo padre.

«Mah, non so se…»

«Il divano del salotto diventa un letto matrimoniale, non l’abbiamo ancora usato quindi daresti finalmente un senso all’acquisto…» aggiunse, lanciando una frecciatina alla moglie.

Lei, ricambiando l’occhiataccia, tagliò corto: «Insomma, a noi farebbe molto piacere! Sentiti a casa!»

Mi auto-convinsi a non fare lo snob e accettai: «Grazie infinite!»

Il divano letto era in effetti spazioso e comodissimo e, anche grazie alla stanchezza accumulata durante il giorno, mi addormentai all’istante.

La mattina seguente, uscito di casa dopo colazione, decisi che i saluti e i ringraziamenti non bastavano, così andai per negozi con l’intento di ricambiare l’ospitalità con qualcosa di commestibile.

Entrai quindi in un piccolo negozio di alimentari pensando che avrebbe fatto al caso mio. In effetti trovai subito quello che cercavo ma, nel mentre, accaddero una serie di eventi piuttosto bizzarri: prima una signora sulla sessantina mi ha urtato col carrello e poi se n’è andata lanciandomi un’occhiata furtiva ma senza dire una parola; poi un’altra, sui cinquanta, prima si era fermata dietro di me, trovando la via sbarrata, mentre stavo confrontando due prodotti, poi, giusto il tempo di accorgermi della sua presenza, aveva deciso di arretrare per cambiare percorso cominciando a borbottare ad alta voce con la sua amica riguardo alla «Gente che non ti lascia passare, robe da matti!.» Da ultimo, la ciliegina: mentre mi trovavo in coda per la cassa, un signore benvestito sui sessanta passò davanti a tutti, dritto alla meta, senza fare una piega.

Tornato da loro, mi chiesero di rimanere anche per pranzo ed io a quel punto, cambiato l’oggetto della gita da “scampagnata naturalistica” a “visita a un vecchio amico”, ci rimasi. Avevano preparato un menù di pesce, e impiattando il risotto sua madre mi chiese: «Anche tu vuoi che te ne lasci un po’ nella pentola?»

Vedendo il grosso punto interrogativo che si era disegnato sulla mia faccia, proseguì: «Vedi, quando c’è risotto o paella, il tuo amico Gio fin da quando era piccolo vuole che ne lasci un po’ nella pentola, così quando ha finito la sua porzione non è triste perché sa che ce n’è ancora un po’.»

«Davvero?», feci io guardandolo.

«Eh già…» confermò lui.

«Beh, forte! Non ci avevo pensato! Allora sì grazie, un po’ nella pentola anche per me.»

Nel frattempo lei però aveva alzato gli occhi verso la finestra.

«Ehi! …ma guarda che furbone di un paraculo!»

«…che c’è!?» le fece Gio.

«C’è un ragno che sta attaccato alla zanzariera, era lì fermo anche ieri e ora ho capito perché!.»

«Mamma, ma sei fuori?» replicò lui.

«Ma non capisci? Questo sta attaccato alla zanzariera così prende gli insetti che ci si appoggiano sopra, e in questo modo non deve neanche stare lì a fare la ragnatela! Hai capito?»

«Sì mamma, ho capito, tu sei fuori!»

«Ah… dici così ma te ne accorgerai presto di come va il mondo!»

Gio si rivolse a me: «Oh, cavolo, adesso attacca un pippone…»

In effetti, col cucchiaio in una mano e un piatto nell’altra, attaccò: «Quel ragno è l’emblema della società in cui viviamo, in cui stanno diventando tutti dei grandissimi paraculo! Il ragno approfitta della zanzariera per non farsi la tela, sarà meno appiccicosa ma qualcosa piglia lo stesso e lui si risparmia la fatica. In ufficio molti fanno solo il minimo indispensabile che gli è richiesto per prendere lo stipendio a fine mese; in negozio le persone ti passano davanti e manco ti chiedono “permesso” o “scusa”; tutti si lamentano alle spalle di tutti e nessuno ti dice le cose in faccia quando ha un problema con te. E sai che c’è? Che così non si risolverà mai nulla, sarà sempre tutto un borbottamento di fondo e tutti praticheranno lo sport dello “scarico delle responsabilità”!»

«Cosa?», fece il marito.

«Già! Come te che ti prendi una cosa da mangiare da una confezione solo se la confezione è già stata aperta da qualcun altro prima… non vuoi neanche la responsabilità di aprire tu una cosa nuova che hai tutto il diritto di aprire perché è già in casa! Per esempio.»

«Ovviamente ci finisco sempre in mezzo io…», disse rivolto a noi con un sorriso.

«Oh, povero lui, che non sia mai! Comunque il mio era solo un esempio…»

«In realtà erano quattro.» specificò Gio.

«…per dire che sempre meno persone sono disposte a prendersi delle responsabilità anche minime, e questo è un vero problema. Dove andremo a finire di questo passo? Voi ricordatevi sempre che sapersi prendere delle responsabilità, e imparare a gestire il senso di responsabilità, vi renderà delle persone affidabili e vi può aprire molte porte! Responsabilità significa anche saper mettere da parte l’orgoglio e saper chiedere aiuto quando si ha bisogno, saper accettare una mano da qualcuno, saper ricevere, sapersi scusare quando serve e saper fare un complimento o dire “grazie” quando qualcuno fa un buon lavoro e se lo merita! Ricordatevelo!»

Il risotto non era più caldissimo, ma comunque buonissimo.

Poco più di un’ora dopo, ringraziati e salutati affettuosamente con la promessa che ci saremo rivisti presto, stavo già pedalando sulla strada di casa.

Le parole della mamma di Gio, che lì per lì si sarebbero potute proprio dire un “pippone” come lo aveva definito lui, a dire il vero non erano cadute nel vuoto e mi si rimescolavano nella testa. Lo “sport dello scarico di responsabilità” era una cosa che effettivamente avevo notato in molti modi di fare e di dire della gente, ma non avevo mai riflettuto seriamente sul problema che lei invece aveva saputo descrivere in poche frasi. Sapersi scusare… saper dire “ho sbagliato”… in effetti non era molto di moda anche nella mia esperienza di vita, così come l’arte del “chiedere”.

In quell’istante, a proposito di questo, mi ricordai di un fatto che mi era capitato poco tempo prima: un giorno una donna col velo, che faceva assistenza alla sua piccola ricoverata in ospedale, mi ha chiesto di andarle a fare un po’ di spesa dato che non poteva muoversi da dov’era. Niente di speciale: una confezione di pane bianco, del succo di mela, qualche monoporzione di cioccolato spalmabile e un paio di altre cose che non ricordo. La sera quando le ho portato il sacchetto coi prodotti che mi aveva chiesto, oltre a rimborsarmi l’importo speso mi regalò un portachiavi del Marocco e un post-it con sopra scritto il mio nome in due lingue, italiano e arabo. Onorato, l’ho ringraziata moltissimo e, pochi giorni dopo, le ho inviato su whatsapp la foto del suddetto post-it messo in cornice ed esposto sopra una mensola, davanti a dei libri, nella stanza dei pensieri e della musica, una stanza speciale di casa mia. Al ricevere la foto, mi disse di esserne molto felice ed io capii di essere riuscito ad esprimerle tutta la gratitudine che sentivo.

Solo in quel momento, solo rivedendo quell’episodio alla luce delle mie riflessioni sul discorso della mamma di Gio, ero riuscito a rivestire la richiesta di una persona che mi conosceva a malapena di un valore diverso: pensai che a volte una domanda è come una magia, fa accadere cose inaspettate e straordinarie; al contrario, una domanda non fatta, magari per paura o per orgoglio, può fare di un problema un ostacolo insormontabile.

Prima di entrare in casa, dato che era sera tardi decisi di concedermi un’altra piccola libertà: stendermi sull’erba del giardino con una coperta e starmene lì per un po’ a guardare le stelle.

A quell’immagine profonda e infinita, a quei fuochi lontani, affidai il coraggio e l’iniziativa di quella scampagnata, quell’inaspettato e piacevolissimo incontro, il gusto squisito del cibo e dell’ospitalità che mi erano stati offerti, il senso di benessere di quel momento, la stanchezza della pedalata e, in particolare, le riflessioni sulla paura, sull’orgoglio e sulla responsabilità. Pensai che quell’esperienza piccola mi aveva in realtà lasciato tanto, e che quel tanto mi piaceva troppo per rischiare di perderlo.

Così, qualora in futuro fossi finito col comportarmi da egoista o da “paraculo”, magari per paura, mi sarei rivolto di nuovo a quell’immagine, per sentire di nuovo la sensazione che stavo provando in quel momento. E per chiedere memoria, e consiglio, alle stelle.

Francesca Lagonia

Alessandro Navarin

NE PIÙ, NE MENO

C’era una volta un pappagallo che, a detta di tutti, era stato baciato dalla fortuna. Tutto è cominciato quando il Re e la Regina lo acquistarono come regalo di compleanno per il loro cucciolo, il principino Giovanni: da quel momento, al pennuto furono assegnati niente meno che un servo, per curarne la salute e il decoro, e un addestratore per insegnargli il linguaggio degli umani. Pare infatti che il Cenerino, in particolare, si distingua tra i pappagalli come il miglior imitatore e oratore, e che possa addirittura imparare a rispondere alle domande con frasi di senso compiuto. Lo chiamarono Anacleto.

Oltre ad essere fortunato, ovviamente, era anche incredibilmente bello, tanto che tutti gli ospiti illustri che si recavano a far visita ai regnanti si fermavano ad ammirarne il meraviglioso piumaggio sulle sfumature del blu (tra l’altro in perfetto contrasto con la lucente gabbia dorata) e si dilungavano poi in elogi e complimenti.

Poiché il Re era molto ricco ed aveva potere su un territorio proprio vasto, feste e ricevimenti erano all’ordine del giorno. Nonostante ciò Giovanni non aveva molti amici, e neanche la scuola poteva dargli occasione di conoscere qualcuno dato che aveva sempre studiato a casa con maestri privati.

Fin dai primi momenti passò quindi un sacco di tempo con il suo Anacleto, tenendolo vicino anche quando studiava, leggeva e si ripeteva le cose ad alta voce. In questo modo, pensava, il suo amico avrebbe imparato a parlare ancora prima di quando l’addestratore aveva previsto. Non vedeva l’ora di scambiare qualche parola con Anacleto anche perché, a parte gli insegnanti, nessuno in casa sembrava avere mai il tempo di dargli retta: sua madre e suo padre erano sempre troppo indaffarati e, nelle rare occasioni in cui erano insieme, gli parlavano solo di proprietà, ricevimenti e politica. I regali non mancavano certo, ma quello che gli girava per la testa, i dubbi, le paure, le curiosità ed i suoi sogni segreti sembravano non interessare a nessuno.

Di anno in anno, il principino divenne prima un adolescente dal cuore ribelle e poi un giovane adulto in preda agli sbalzi d’umore e alla nevrosi, proprietario di un’ala dello sfarzoso palazzo; Anacleto invece, nella sua nuova gabbia d’oro più lunga, più larga e più alta, non aveva ancora detto neanche una parola e nessuno si spiegava il perché.

Un giorno l’addestratore fu licenziato e il principe, in collera con il volatile, lo restituì ai genitori facendosi promettere che non lo avrebbe mai più rivisto. Questi posizionarono allora la gabbia nella sala dei ricevimenti e degli incontri diplomatici, così che potesse fare da ornamento con la sua bella e silenziosa presenza dato che altra utilità sembrava non potesse avere. Era la sala in cui si discuteva, appunto, di politica nazionale ed internazionale, i cui piani riguardavano essenzialmente la conquista di nuovi territori, le guerre e le eventuali azioni di repressione.

Quando il principino divenne a tutti gli effetti un principe, raggiungendo la maggiore età (e anche qualcosa in più), il Re e la Regina decisero di provare a dare fiducia a quel giovane figlio con il quale era diventato così difficile comunicare, e lo coinvolsero nella politica del regno. Si riproposero valutare per un certo periodo il modo di porsi dell’erede di fronte alle problematiche legate al mantenimento del potere della famiglia, per poi decidere se sarebbe stato in effetti degno del trono oppure se sarebbe stato meglio garantirgli per sempre una vita agiata e spensierata ed affidare le questioni politiche a persone esterne.

Giovanni cominciò così a partecipare a tutti gli incontri diplomatici rimanendo, inizialmente, un osservatore silenzioso. A un certo punto però, capendo meglio gli argomenti trattati e intravedendo la possibilità di acquisire molto potere in futuro, cominciò a interessarsi e ad intervenire nelle discussioni.

Una sera si discuteva di un problema che da qualche tempo si era ingigantito e stava rischiando di mettere a rischio la tenuta del patrimonio di famiglia: molti cittadini e agricoltori non pagavano le tasse, in parte o del tutto, e tutti gli interventi intimidatori e ricattatori adottati fino a quel momento, come la prigione, lo sfratto o il sequestro di beni, non sembravano capaci di arginare la situazione. Fu proprio in questa occasione che il principe prese la parola, con decisione, per esporre la propria (a suo dire brillante) idea:

«Signori, io dico che stiamo sbagliando tutto: credo infatti che il nostro concetto di dominio sia oramai obsoleto, in quanto limitato ai soli beni materiali, ai terreni, ai soldi. Noi siamo dotati di un’intelligenza superiore, come dimostra il tempo immemore da cui persiste il potere della mia famiglia. Ora dobbiamo ampliare i nostri concetti di potere e di proprietà, allargarli affinché comprendano tutto ciò che è davvero fondamentale nella vita: che cosa intendo?

Sto parlando del sole, dell’acqua e dell’ossigeno che è contenuto nell’aria, i quali permettono all’uomo di sopravvivere. Queste cose, che la natura mette a disposizione di tutti, possono essere solo nostre e possiamo toglierle a chiunque non accetti il nostro potere e non rispetti gli obblighi da noi stabiliti

Gli uditori rimasero in silenzio per un po’ dopo le parole che il giovane aveva appena declamato. Non potevano credere che si sarebbe spinto a tanto, non si aspettavano una tale durezza. Non sapevano se applaudire o provare a farlo ragionare.

Dopo una decina di secondi, però, qualcuno parlò:

«S T O L T I !», disse la voce del principe.

Ma lui, Giovanni, non aveva aperto bocca.

Nella sala il clima già teso divenne glaciale. Nessuno sembrava aver capito, ma molti si voltarono tremanti verso la gabbia d’oro dalla quale Anacleto li osservava dal trespolo più alto.

Laura Ometto

«Non capite, e mai imparerete dai vostri stessi errori. Continuerete a ripeterli per sempre, dall’alto della vostra intelligenza. La natura vi ha regalato questa dote, ma non la sapete usare che contro voi stessi» continuò l’animale.

Il principe, basito come gli altri, sgranava gli occhi impressionato dal fatto che fosse la sua stessa voce a parlare.

«La storia si ripete», proseguì, «e voi umani volete sempre andare oltre, superarvi, imporre voi stessi sopra ad altri voi stessi, senza capire che se non date un limite a quello che volete avere oggi, non ce ne sarà più per domani. Anzi, non ci sarà nemmeno un domani! La natura insegna, e voi dovete ascoltarla! Volete appropriarvi di ogni sua bellezza ed io ne sono la dimostrazione, come lo sono i mobili intarsiati, fatti di centinaia di legni diversi, di cui siete circondati.

Bellezza rubata e messa a vostra disposizione, vostra e di nessun altro, per darvi ogni giorno l’illusione di essere superiori ad altri della vostra specie. Non è sbagliato possedere, ma è sbagliato possedere per il solo gusto di farlo, senza condividere. La natura ha messo queste cose a disposizione di tutti, e voi ve ne siete appropriati senza diritto.

Ora l’acqua, il sole, addirittura l’ossigeno: più volte nella storia sono stati fatti dominio di qualcuno e sottratti ad altre persone.

Ma la natura, fin da prima che l’uomo esistesse, ha fatto sì che ciascun essere vivente, animale o vegetale, potesse disporre per tutta la sua vita di ciascuno di questi elementi fondamentali solo nella giusta misura in cui il proprio organismo ne ha bisogno.

Non potreste respirare più ossigeno di quanto ne ispirate di volta in volta, come le piante non possono prendere più sole di quello di cui necessitano; se di acqua ne accumulate in eccesso, vi farà male. È questo il meccanismo della natura, e solo in questo modo le risorse sono di tutti. A nessuno degli organismi naturali, che rispettano questa regola fondamentale, manca qualcosa. Voi umani invece vi scannate per inseguire l’illusione di poter vivere meglio; ma è un benessere momentaneo, e quello che sottraete ad altri oggi, un giorno finirà per tutti, anche per voi stessi.

Le risorse essenziali per la vita, così come la bellezza di cui gli occhi e tutti i sensi hanno bisogno di nutrirsi ogni giorno, perché siano tali non si possono possedere che nella quantità giusta in ogni istante. Ne più, ne meno. Altrimenti scegliete il male, anche per voi!» E dopo qualche secondo concluse: «Poi non dite che non ve l’avevo detto!»

Alessandro Navarin

STORIA DI UN IRIS

Nel giardino di Natalina di iris ve n’erano in discreto numero. Lei, oltre a quasi un secolo di sudata esperienza con la terra e i suoi frutti, aveva mani d’oro, quindi i fiori del suo giardino non potevano che essere in ottima forma. Non lo avrebbe mai ammesso nemmeno a sé stessa, perché la vita secondo lei andava vissuta solo con tanto lavoro e sacrifici, ma, come per la cucina, la sua si poteva definire una grande passione dato che non pensava ad altro.

Ma torniamo a noi: dicevo di questi iris che, apparentemente stavano tutti lì tranquilli, belli come il sole, a farsi curare e ammirare. Nessuno a guardarli avrebbe mai detto che uno di loro si sentisse tremendamente frustrato. Eppure c’era e, anche se lo nascondeva molto bene, in cuor suo non trovava pace. Ma perché diamine un iris doveva sentirsi frustrato? Che motivi aveva? Era stato anche bravo a trovarne uno considerata la vita che faceva!

Provando però a metterci in empatia con il nostro fiore, scopriremmo molte cose che meritano di essere prese in considerazione. Se infatti nei primi giorni di fioritura, baciato dal mite sole primaverile, conduceva una vita serena e spensierata com’è conveniente per un esemplare della sua specie, un giorno accadde un fatto: a una certa ora della mattina sopraggiunse Romano, coniuge della Natalina, in compagnia del nipote Alessandro. Mentre mostrava al piccolo come bisognava fare per togliere le erbacce nel modo giusto, il nonno, discorrendo del più e del meno, volle regalare al piccolo una pillola del suo sapere: «Lo sai Alessandro? Questi sono Iris, e si dice che l’Iris sia “il fiore degli artisti e dei poeti!”». Da quel giorno, a farci caso, uno di essi si incurvò un po’ sul suo gambo, perché divenne triste pensando che non aveva nessun artista o poeta da ispirare. Gli altri iris in realtà erano nella stessa situazione ma sembravano non dare nessun peso alla cosa; questo per lui non era affatto una consolazione, anzi, si sentiva ancora più solo e pensava che la sua vita fosse un po’ sprecata non realizzando ciò per cui era nato: ispirare bellezza e stimolare la creatività di un umano che ne avrebbe fatto opere d’arte!

Era bello e non gli mancava nulla, ma con questo pensiero non trovava pace.

Nelle vicinanze si trovava un grosso cespuglio di lavanda, anche grazie al quale durante il giorno l’aria profumata si animava dei colori di moltissime farfalle. Queste solitamente erano di poche parole, a differenza delle api, però, sapevano quando era il caso di intervenire.

Accadde un giorno che fosse davvero il caso:

 

– Che hai Gambostorto? – gli fece una.

– …Eh?

– Sì dico a te!

Chiedo scusa ma credo sia opportuno, a questo punto, specificare una cosa: non è detto che le farfalle siano tutte delicate e cordiali come si direbbe a vederle!

– Non mi chiamo Gambostorto… – disse il fiore cambiando l’aria triste in un broncio.

– Lo so, ma mi viene da chiamarti così, e sai perché?

Lui tacque.

– Perché sei triste e ingobbito quando invece dovresti tenere lo stelo bello dritto per esaltare la tua bellezza con aria fiera! …proprio come fa la sottoscritta d’altro canto – aggiunse con un sorrisetto cominciando una piccola danza nell’aria.

– Eh, per lei è facile parlare. – disse l’iris tra sé, pensando che quella non lo sentisse.

– Facile per me??

Eccola, ci avrebbe giurato, a quella non scappa nulla.

– Facile per me, facile per te, facile per tutti qui, e che diamine! Siamo in un giardino, qui è tutto bello! – concluse lei.

– Sì, ma per te è facile nel senso che basta che tutti ti guardino e

trasmetti senso di leggerezza, gioia di vivere…

– Puoi dirlo forte! Certo che è così! Perché tu invece che effetto credi di fare a chi ti vede? Anzi, a chi ti ammira?

– Questo non lo so, so però che, anche se fosse, non sarebbe sufficiente per me. – Disse lui affranto ma deciso.

– E cosa dovrebbero fare tutti? Ammirarti e poi darti fuoco?

Ammirarti e poi coglierti? Ammirarti e poi farti una foto e poi stare lì ancora a farsi…

– A farsi ispirare dalla mia bellezza! Sì, proprio così! L’Iris “è il fiore degli artisti e dei poeti”, se non lo sapevi.

– E quindi?

– E quindi, ovviamente, dovrei ispirare arte, bellezza, poesia… non semplicemente starmene qui in mezzo al nulla.

– Grazie per avermi dato del nulla, intanto. Vabbè, comunque, i tuoi compagni che dicono a riguardo? Sentiamo.

– Oh, non mi rivolgono la parola già da un pezzo quelli.

– Ma chissà come mai!? Te lo sei mai chiesto? Io un’ideina forse forse ce l’ho… – disse la farfalla in tono canzonatorio.

– Loro non capiscono. Questa è la verità.

– Oh no mio caro, questa è la tua verità. Perché, ti svelo un segreto, quello a cui sfugge il vero nocciolo di tutta la questione sei proprio tu, Gambostorto.

– Piantala con quel soprannome!

– Finché continui a stare ricurvo all’ingiù la mia è una descrizione, non un soprannome… – Le era sempre piaciuto giocare con le parole.

– Non ti parlo più, basta, mi hai rotto!

– Finiscila! – lei sapeva di avere un poco esagerato, ma non lo avrebbe mai ammesso. Tuttavia si ripropose di aiutare in fretta l’ingenuo fiore a stare un po’ meglio, così proseguì altrettanto decisa:

– Temo che mi tratterrò fino a quando non avrò risolto il tuo problema.

– Ma per piacere!

– È tutto molto più semplice di quanto pensi la tua mente di fiore: hai sovvertito il senso della frase che hai sentito e così ti sei fatto tirare la zappa sulle radici da solo.

– Ma…

– Zitto! E ascoltami. Dunque, mio caro: se tutti gli Iris del mondo dovessero per forza ispirare opere d’arte e creazioni d’ogni genere, probabilmente la vostra specie sarebbe oramai estinta, dato che la maggior parte di voi si lascerebbe appassire subito, pensando che la propria vita non abbia un senso. E invece non è così! Perché? Secondo te tutti hanno capito male?

– No, ma…

– Ceeeeerto che no!!! Sai cosa si dice della farfalla?

– No

– Che sia il “respiro dell’anima”, o, più semplicemente, un’anima.

– E quindi?

– Sforzati! – Lo esortò determinata.

– L’anima di chi? …una bella o una brutta?

– Eccolo, vedi? Ti perdi in riflessioni che ti sviano dalla semplicità di un concetto così meraviglioso: le anime sono tutte belle, solo c’è chi le lascia libere di esprimersi e chi le tiene nascoste.

– E perché dovrebbe?

– Mah… per la paura che a volte si ha di sé stessi forse, come te

che ti senti inadeguato perché non sei l’ispirazione di nessun artista e per questo non vuoi condividere con nessuno la tua bellezza: ti senti dunque terribilmente insicuro, oppure la tieni nascosta perché la ritieni troppo preziosa? Io dico che ciò che ti sta intorno è importante tanto quanto il più grande artista del mondo, ma soprattutto, ricordati, una cosa che non condividi non sarà mai preziosa.

Iris rimase un attimo in silenzio a riflettere su quell’ultima frase, così secca, lapidaria: davvero in cuor suo pensava che la sua bellezza fosse così preziosa da non meritare di essere condivisa con il mondo che lo circondava? Se così fosse stato, allora avrebbe avuto una grande fiducia in sé stesso e si sarebbe sentito arrabbiato, magari, ma sicuro di questo. Invece era così triste proprio perché nel profondo si sentiva inadeguato nei confronti di un così grande ruolo ispiratore che il mito gli attribuiva solo per il fatto di essere un Iris. Ne aveva paura, non si sentiva all’altezza. Si prese ancora qualche secondo, poi disse:

– Forse capisco che cosa mi vuoi dire: ho stravolto il senso di quello che ho sentito…

La farfalla rimase in silenzio, lasciandolo continuare.

– …non capendo che il vero significato di tutta la faccenda non ha niente a che fare con il senso della vita, ma ha solo a che fare col perché mi devo sentire felice e sicuro di poter esprimere e condividere la mia bellezza di Iris con tutto ciò che mi sta intorno.

– Spiegati meglio. – lo incalzò lei.

– Credo di aver capito che il nocciolo della questione è questo: dire che l’Iris è il fiore degli artisti e dei poeti significa che l’Iris è il fiore a cui essi hanno conferito la loro speciale benedizione!

– Ma bravo! – confermò la farfalla.

– Quindi non posso che esserne felice e contribuire a fare più bello il mondo con la mia meravigliosa efflorescenza. – e detto ciò si raddrizzò.

– Sei un tantino duro di comprendonio, ma finalmente ti sei levato quella maledetta aria da fiore reciso! Ora che ho fatto la mia buona azione quotidiana vado a rifocillarmi con una scorpacciata di lavanda, ciao!!

– Grazie Lalla!

– Eh? – chiese lei voltandosi quando si trovava già a una certa distanza.

– È così che vi chiamavo da piccolo. – le disse ridacchiando – Ciaooo!

Alessandro Navarin

Francesca Lagonia

L’elefante e lo spazzino

Il valore di una persona risiede in ciò che è capace di dare e non in ciò che è capace di prendere.

Albert Einstein

C’era una volta, addormentato sul sedile di un pullman, un lendinarese di nome Renzo. Ci si metteva un bel po’ a svegliarlo, quando lo prendeva la piomba. In media un quarto d’ora, ma a volte anche venti minuti buoni. I suoi amici della Banda lo sapevano bene, così come al solito, di ritorno da un concerto, cominciavano a chiamarlo poco prima di arrivare allo vincolo per il Bornio. L’operazione consisteva nell’avvisarlo che si era quasi arrivati, prima con calma e poi in modo via via più incisivo, magari con qualche punzecchiata sulla grossa spalla tonda.

Giunti a destinazione, dopo i saluti montava in bicicletta e si avviava verso Sant’Anna. A casa soleva ripensare alla giornata appena trascorsa: erano belle le uscite con la Banda cittadina; anche in quell’occasione i bandisti e il pubblico gli erano sembrati contenti, avevano applaudito di gusto. Anche a cena era stato bene, aveva chiacchierato un po’ con questo e un po’ con quello, era seduto vicino al presidente ed era riuscito a scatenare nei vicini molte risate. Avrebbe ripreso in mano la bandiera del corpo bandistico di lì a due settimane in occasione della sfilata in piazza, grande evento per la cittadinanza al quale era vietato mancare!

Lì per lì pensò poi che quella sera non aveva una gran voglia di zucchero, così lasciò il barattolo dove stava e buonanotte al secchio, anzi, buonanotte ai suonatori. E a tutti quanti.

II

Qualche anno prima ero alle elementari. Già da qualche giorno l’aria si era fatta più tiepida e durante la ricreazione uscivamo tutti fuori, maestre comprese, nel giardino davanti alla scuola. Sembrava un sogno, un’esplosione di spazio e di libertà, oltre che di sole, rispetto ai freddi corridoi col pavimento di marmo che ci contenevano nel periodo invernale. A questo periodo risale il primo ricordo che ho di Renzo: un ometto rotondo e sorridente in tuta da meccanico che passava tutti i giorni, più o meno alla stessa ora, quasi alla fine dell’intervallo, per la strada che costeggiava la recinzione del cortile; guidava una bicicletta speciale, con un grosso bidone metallico davanti al manubrio e una scopa infilata per il manico che sbucava a lato come un secco alberello pendente. Ogni volta si girava e salutava tutti agitando in aria il braccio e la mano. Un giorno, cercando di farmi intendere con una breve descrizione, chiesi a mia madre chi fosse: «È Renzo, lo spazzino comunale» mi rispose. Cominciai da quel momento, vedendolo passare, a ricambiare il saluto, dato che non c’era nulla di male, e in più feci caso ad alcuni miei compagni che in quelle occasioni si divertivano a urlargli «Ciao Renzooooooo!!!», cui lui faceva eco entusiasta con un «Ciao bambiniiiiii!!!» che metteva allegria per quella sua voce nasale che ricordava i cartoni animati. Non si fermava mai, il tempo di quello scambio breve e disinteressato e proseguiva oltre l’incrocio.

III

Non si fermava di certo. C’erano le strade, i rifiuti, il verde pubblico e le recinzioni a cui badare. Non avrebbe potuto vederlo mai nessuno con le mani in mano, e ci mancherebbe, per Lendinara c’era tanto da fare. Il Comune gli dava uno stipendio, lo aveva assunto per prendersi cura della città, e questo lui lo voleva fare al meglio che poteva. Pur sapendo fare due conti, sempre all’occhio circa le possibili fregature che si potevano nascondere dietro l’angolo, dava sempre ascolto anche alle proprie iniziative personali che lo spingevano a fare, per così dire, degli straordinari. Se ai bambini si voleva davvero bene, non si poteva permettere che rischiassero di farsi male contro le recinzioni tutte storte e arrugginite dei giardini pubblici di S. Francesco o del cortile delle scuole medie. Erano in quelle condizioni da troppo tempo, pericolose e, aspetto non meno importante, tanto brutte a vedersi: un po’ di giornate di servizio, più dei ritagli di tempo di due ore oggi e una domani, e fece prima lui a farlo che altri cento a dirlo. In fondo che ci voleva? Qualche colpetto qua e là, olio di gomito, carta vetrata, antiruggine, vernice e tanta pazienza. Ahimè quanti ne approfittavano di quella santa pazienza di cui sembrava essere ricco. Ne era pieno quanto di tempo libero, diceva la gente: non ha figli né moglie. Ed è buono come il pane: non pensava mai male di nessuno, il buon Renzo, adoperandosi per il prossimo e per la sua città.

Solo, nei momenti di pausa o la sera prima di andare a dormire, si dispiaceva un poco che la gente, la sua gente, non fosse capace di provare un po’ d’affetto.

Ma chissà chi è stato ad inventare lo zucchero, una gran persona senza dubbio, uno in gamba.

IV

Con le scuole medie inferiori cambiai istituto. Questo aveva il cortile principale all’interno e raramente si usciva dall’altro lato che dava sulla strada. Passò dunque parecchio tempo, ma un giorno lo rividi: lui si girò e, vedendoci fuori, sventolò in aria la mano. «Ciao Renzo!!!» lo salutai, e lui mi rispose «Ciao ciao!!!» con un sorriso, pur senza sapere chi fossi. «Perché saluti quello sfigato?», mi chiese un mio compagno. Non seppi cosa rispondere, non me l’aspettavo. Dal mio sguardo interrogativo lui dedusse che doveva spiegarsi meglio, e continuò: «È uno sfigato, poveretto. Sempre in giro per le strade a far lavori di cui non frega niente a nessuno… e poi è anche un morto di fame… non ha amici, o almeno io lo vedo sempre da solo, saluta tutti e ride sempre. È matto per me». Io rimasi muto, morta lì.

A casa, a pranzo con i miei, indagai: «Ma per caso lo spazzino è un matto??»

Mia mamma: «Chi? Ah, Renzo?».

«Sì!».

«Perché? Non mi risulta… direi di no», continuò lei.

«No, cioè, me lo ha detto un mio compagno di classe. Era tanto che non lo vedevo e oggi in ricreazione è passato per la strada e l’ho salutato come facevamo alle elementari, era da tanto che non lo vedevo, ripeto, ma mi è venuto in mente che si chiama Renzo e così gli ho detto “Ciao Renzo!”, e questo mi ha sentito se n’è uscito con un sacco di brutte cose sul suo conto…».

«Del tipo?», fece mia madre.

«…che è un matto perché è sempre in giro per le strade…», cominciai.

«…beh, è uno spazzino», commentò tra sé.

«…ok, e poi che non ha soldi, che è un morto di fame, che passa tutto il giorno a far lavori che non interessano a nessuno e che è solo come un cane e non ha amici».

«…non mi sembra proprio», chiarì.

«…ah e poi ha detto… beh, che è uno sfigato, tanto sfigato!», conclusi.

Intervenne allora mio padre che stava guardando la televisione e, nel mentre, ascoltava i nostri discorsi: «Ti ha detto che è uno sfigato perché non è sposato e non ha una compagna, e, che si sappia, in effetti, non è mai stato con qualcuno perché è un tipo un po’ particolare… sugli amici non posso dir nulla perché non lo conosco di persona, ma posso dirti che comunque lavora per il comune e di gente deve conoscerne molta più di me. Inoltre collabora con diverse associazioni. Certo, come ho detto, si presenta come un tipo un po’ particolare, che si può definire una persona semplice semplice, un bambinone se vuoi, ma ciò non dà il diritto di definirlo uno sfigato perché la sua vita la fa. Si guadagna poi uno stipendio che, per una famiglia fatta di una persona sola, come ce ne sono moltissime altre, è di sicuro più che dignitoso! Di’ al tuo compagno che vedremo cosa saprà combinare lui quando sarà più grande, con la testa che si ritrova…».

V

Una sola cosa Renzo tornava a chiedere al Comune di tanto in tanto, e gli fu sempre negata. Un aumento? No. Un elefante! Uno vero, un pachiderma in carne e ossa. Grande o anche piccolo, se lo sarebbe cresciuto lui con amore incondizionato e altrettanta dedizione. Un elefante lo avrebbe reso davvero felice, ne era certo, tanto ci aveva riflettuto sopra. E che non pensassero che non avesse più i piedi per terra, li aveva eccome: lo avrebbe portato in giro per la città, dove c’erano alberi in abbondanza perché potesse nutrirsi e allo stesso tempo rendere un servizio al verde pubblico; sarebbe stato utile anche come pompa per l’acqua. Insomma, perché no? Si immaginava già a portarselo, se fosse stato piccolo, nel bidone della sua bicicletta di servizio, dal quale magari sarebbe sbucato fuori per salutare anche lui con la proboscide i bambini in ricreazione e gli amici sui marciapiedi. A Natale poi, sai quanto si sarebbero divertiti i bambini? Renzo, che amava così tanto perpetrare la tradizione di travestirsi da Babbo Natale per portare nelle scuole torte (che offriva di tasca sua) e piccoli doni, avrebbe sicuramente insegnato al suo elefante a consegnarli agli increduli e incantati destinatari. Che meraviglia! Per non parlare dell’omaggio floreale alla Madonna del Pilastrello che annualmente recava, sempre travestito da Babbo, in occasione del concerto di Natale della sua Banda Città di Lendinara, dalla quale si congedava per un attimo lasciando il ruolo di porta bandiera. Quanti pro, e nessun contro. Con la Banda si sarebbero potuti onorare i servizi, anche quelli nelle frazioni limitrofe dei mesi estivi, con un valore aggiunto. Un elefante, solo un elefante, alle cui spese avrebbe provveduto personalmente senza chiedere una lira a nessuno, magari anche rinunciando alla sue vacanze estive che tutti gli anni trascorreva, grazie a viaggi organizzati, in un angolo diverso del mondo. In Africa, in Asia, quanti elefanti aveva visto! Quanto aveva appreso sulla loro natura, sui loro bisogni. Un desiderio, un sogno che tirava fuori dal cassetto tante volte per riprovare lo stesso brivido, la stessa vertigine della prima volta. Un desiderio non invecchia mai, o svanisce per inconsistenza o matura e si fa slancio vitale.

VI

Un tardo pomeriggio mentre facevo i compiti, suonò il campanello di casa. A quell’epoca ero al liceo, forse terza o quarta. La temperatura era mite e il sole arancione, appena sospeso sulla linea dell’orizzonte. Era Renzo, con la sua bicicletta personale, senza bidone davanti, che dopo un caloroso saluto ci chiese se volevamo acquistare un biglietto della lotteria del Corpo Bandistico Città di Lendinara. Come dire di no? Ne acquistammo cinque. Ringraziò tantissimo e scambiammo due parole su quello che facevo e quello che avrei voluto fare da grande. Mia madre fece uscire il gatto e richiuse la porta, rimanendo lì con noi a commentare le mie risposte e a parlare un po’ di lei e di papà. Renzo invece nel cestino della bicicletta, oltre ai pacchettini di biglietti della lotteria, teneva un barattolo di latta chiuso con un coperchio di gomma. Mentre scambiavamo quattro chiacchiere lo prese e, come se fosse una cosa del tutto naturale (al pari di mettere in bocca una caramella, per intenderci) ne trasse una cucchiaiata di zucchero bianco e se la sbafò con fierezza. Poi un’altra e poi richiuse il barattolo. In quel mentre, avendo udito le nostre voci, era uscita mia nonna che, prima ancora di salutarlo e presentarsi, lo rimproverò facendo gli occhi severi: tutto quello zucchero gli avrebbe fatto male, gli disse. Lui tranquillamente, in tono tra l’amaro e l’ironico, diede tutta la colpa alla carenza di affetto.

Entrati in argomento, non potei evitare di riascoltare per l’ennesima volta dalla vecchia di casa che non mi sarei trovato facilmente una morosa considerato il caratteraccio che mi ritrovavo, e anche questo fu per Renzo il pretesto per esprimere quanto le donne fossero importanti come amiche ma niente di più, perché facendo certe cose si va incontro a di quelle malattie che non ci sono parole per descriverle. Dio te ne scampi!

Ebbi modo di notare più avanti, in altre occasioni, che stimolarlo con certi argomenti piccanti era per molti la vera ricetta del divertimento. Lui stava al gioco, gli piaceva far stare bene le persone che aveva attorno; sapeva tuttavia quando era il caso di cambiare argomento e stava all’intelligenza dei presenti capire quale fosse il limite oltre il quale non spingersi per non fare del male.

VII

La casa a cui Renzo faceva ritorno era piccola, raccolta tra quattro mura contigue all’abside della chiesetta di Sant’Anna, appena dietro a piazza Risorgimento, il centro della comunità. Lui e Anna, due protettori di Lendinara, vivevano sotto lo stesso tetto da una vita. La piazzetta sul retro, circondata da alberi, sarebbe stata ideale per il suo elefante, placido guardiano notturno per quel vecchio luogo sacro.

Renzo era di tutti, era pubblico come i parchi, come il suolo che calpestiamo tutti i giorni, come la terra fertile. Regalava un sorriso e un saluto a chiunque, senza malizia e senza che ci fosse del non detto, senza sforzarsi di essere diverso da quello che era, che fosse di fronte al Sindaco, al Vescovo o all’ultimo degli abbandonati alla propria solitudine. Renzo era un bambino, un grande bambino, che non ha mai avuto bisogno di dimostrare nulla se non a se stesso di poter dare il massimo ogni giorno, per fare contento chi aveva intorno e per fare più bello il suo paesetto.

Chi ha saputo accoglierlo come persona ha conosciuto un cuore grande, un cuore che ha dato incondizionatamente senza chiedere in cambio quell’affetto di cui avrebbe avuto bisogno in egual misura.

Renzo è stato un mio concittadino, uno dei tanti che ho conosciuto solo marginalmente. Quell’uno tra i tanti che però, senza saperlo e senza che io stesso me ne accorgessi, ha seminato un fiore nel mio cuore.

Un fiore bellissimo, che non segue le stagioni ma solamente le mie cure.

Un fiore che appassisce solo quando mi dimentico di dargli da bere o, per qualche motivo, faccio finta che non mi piaccia più.

Mi auguro di imitarti e di non dimenticarti,

ciao Renzo!

Alessandro Navarin

Francesca Lagonia

LETTERA DELLA BUONANOTTE DEL RAGNINO OTTO

Ciao,

mi chiamo Otto e sono un ragnetto. Da qualche tempo vivo nella tua cameretta e mi ci trovo piuttosto bene. A dire il vero mi piace proprio perché è una stanza in cui la notte non sono mai da solo, e ciò mi rassicura. Forse tu non hai mai fatto caso alla mia discreta presenza, sono abbastanza silenzioso: ogni sera, e qualche volta anche di giorno, sbuco guardingo da dietro l’armadio per andare a vedere se la mia tela c’è ancora e se per caso è servita a qualcosa oppure no. Infatti, quando esco allo scoperto, devo stare molto attento a non dare nell’occhio perché di solito quelli come me non piacciono tanto agli esseri umani come te, e per questo i tuoi simili potrebbero cercare di eliminarmi, con una scopa per esempio, insieme alla mia ragnatela. A proposito, sai che cos’è una ragnatela vero? È quella cosa fatta di fili sottilissimi che di solito costruisco nell’angolo di muro che mi sembra migliore per la caccia agli insetti. Spesso non sembra andare d’accordo con la vostra idea di pulito e di ordine, così mi capita di trovarla distrutta, o non trovarla del tutto, dopo che qualcuno è passato a fare le pulizie. Questo naturalmente mi complica un pochino la vita dato che la caccia agli insetti è indispensabile per la mia sopravvivenza, ma non mi do mai per vinto perché ho imparato ad essere paziente e, soprattutto, ad essere molto fiducioso nella provvidenza. La mia attività principale consiste appunto in questo: ancoratomi al muro, intreccio una struttura fatta di tanti fili tra loro ordinati in una bella e fitta trama, e poi attendo che qualche zanzara, magari prima che venga a ronzarti attorno e a pungerti mentre dormi, vi si impigli e si appiccichi per bene diventando così per me un delizioso (quanto necessario) spuntino. Ti dispiace un pochino per la zanzara? Allora sei molto sensibile, e questo è un gran pregio! Non smettere mai di esserlo.

Ma torniamo a noi: sotto sotto devo ammettere che costruire ragnatele mi piace e mi regala anche parecchia soddisfazione. Filando da destra a sinistra, da sinistra a destra, dall’alto al basso e viceversa, nel rispetto delle regole dell’architettura, e con la massima libertà di creare geometrie sempre diverse, belle e stravaganti, do sfogo alla mia creatività e mi diverto un sacco! La costruzione delle ragnatele, o tele, per un ragno come me è davvero un’arte. E per fortuna che è così. Io penso che se si deve impiegare buona parte del proprio tempo nel fare una certa cosa, è meglio che piaccia, no? Certo che da piccolo, quando a scuola ho dovuto imparare le regole per fare bene questo mestiere, spesso mi annoiavo e non avevo voglia di studiare, ma poi quando ho capito davvero come funzionava il gioco, all’improvviso è diventato un lavoro divertente e appassionante. Poi, dico io, è sempre meglio godersi gli aspetti positivi della vita e ricavare da questi l’energia per superare quelli più difficili perché, a dire il vero, non è tutta rose e fiori neanche la vita di un ragnetto come me: quando la scopa o lo spolverino spazzano il muro, o quando si tinteggiano le pareti, ecco che la ragnatela se ne va insieme alla polvere, per quanto bella (a mio modesto parere) fosse; inoltre, come ho già accennato, rischio di farmi male anch’io se non mi guardo le spalle da quelli a cui i ragni non piacciono. In casa tua c’è qualcuno a cui non piacciono? Forse anche tu trovi brutti i ragni? Spero che non ti facciano anche paura! Comunque sia, è mia premura anche tranquillizzarti su questa cosa: siete molto più pericolosi voi umani per noi di quanto potremmo mai essere noi per voi. Mi fa piacere farti dormire meglio senza le zanzare o le mosche, ma certo non posso fare i miracoli o fare l’ingordo: la caccia con la ragnatela non sempre porta grandi frutti! Quando sono fortunato riesco a catturare quello che mi serve per un giorno e l’indomani si ricomincia daccapo. Questo però mantiene le mie zampe sempre allenate, la mia mente lucida e i riflessi sempre pronti: tutti aspetti positivi.

A proposito delle zampe, sai quante ne ho? Otto. E credo siano proprio quelle che ti sembrano così brutte e forse addirittura paurose. Non sei fra quelli? I ragnetti di casa non li trovi poi così brutti? Grande! Vuol dire che sai apprezzare anche chi è molto diverso da te, e anche questo è un gran pregio, non scordartene! Ma se ci trovi brutti o ti facciamo paura (o tutt’e due le cose insieme), voglio dirti che non è affatto obbligatorio farsi piacere una cosa che non piace, ma l’importante è non essere arrabbiati con i ragni e non averne paura solo per il loro aspetto fisico.

Può capitare anche che io ti metta alla prova calandomi a mezz’aria per provare a vedere il mondo dalla tua prospettiva, per capire come lo vedi tu. Cerco di farlo quando nessuno mi vede, ma se ti dovesse capitare di trovarmi penzolante appeso a un filo invisibile in mezzo alla stanza non prendere paura, mi ritiro il prima possibile appena me ne accorgo. Se sei un tipo che si spaventa facilmente cercherò di non farmi mai vedere, non voglio provocarti, però vorrei che tu prendessi coraggio. Se ci pensi, quando non mi vedi potrei non esserci, ma anche essere presente esattamente come quando mi noti attaccato di qua, appeso di là, a testa in giù, di lato o dritto come te: nella vita imparerai che, come me, esiste sia quello che riesci a vedere con gli occhi, sia quello che vedi raramente sia quello che non riesci a vedere proprio; spesso quello che non riesci a vedere, come molte volte il tuo ragnetto Otto per esempio, che sarei io, si nasconde perché ha paura di te. Nonostante ciò ti aiuta a dormire più tranquillo.

Sono sincero, comincia a venire sonno anche a me, quindi mi avvio a concludere la mia lettera. Prima di salutarti voglio però regalarti un piccolo segreto, una cosa importante che, come tuo ragnetto domestico, ci tengo a dirti: nonostante, come ti ho raccontato, debba stare sempre attento a tutto, e continuare a lavorare un sacco giorno dopo giorno per mangiare qualcosa, non sono mai preoccupato, e sai perché? Avete mai sentito di un ragno che sia rimasto senza mangiare? Certo che no! Gli esseri umani come te invece, specialmente i grandi, sono sempre di corsa e vivono nella preoccupazione, solo perché molti di loro non sanno che il segreto è la provvidenza: noi ragni e ragnetti, come tutti gli altri animali in natura, sappiamo che le pur numerose sconfitte non ci devono mai scoraggiare, perché vediamo che se ci impegniamo giorno per giorno (con anche un pizzico di divertimento) tutto quello che ci serve per vivere arriva sempre. Io ho addirittura un tetto sulla testa che poi, a me, non sarebbe neanche indispensabile. A questo punto, di che cosa avrei bisogno ancora? Di nulla. Quindi: vivi nella serenità! Impegnati giorno dopo giorno facendo quello che ti realizza e ti rende felice senza perdere tempo a preoccuparti o con la paura di perdere qualcosa perché, a tutto il resto, pensa la provvidenza.

Fidati di ciò che ti fa essere te stesso, di tutto ciò che ti fa stare bene.

Buonanotte!

Tuo,

Otto

Alessandro Navarin

Francesca Lagonia

BUONA sFORTUNA

“Tutto è determinato da forze sulle quali non abbiamo alcun controllo. Vale per l’insetto come per gli astri. Esseri umani, vegetali o polvere cosmica, tutti danziamo al ritmo di una musica misteriosa, suonata in lontananza da un pifferaio invisibile.

Albert Eistein

Parcheggiata la macchina nel garage, avevo deciso di rimanerci ancora qualche minuto per ascoltarmi la canzone fino alla fine. A motore spento, trovavo che l’abitacolo fosse un luogo magico in cui cantare a squarciagola o semplicemente lasciarsi coccolare da una miscela di ritmo e armonia.

Dalle chiavi ancora infilate nel quadrante, dondolavano i miei tre portachiavi preferiti: una medaglietta con la raffigurazione del Divino Niño, un’altra con tre soggetti tratti da “Alice nel paese delle meraviglie” e un souvenir marocchino a forma di nimcha. Sono tre doni inattesi ricevuti in tre momenti diversi della mia vita: il primo è stato il ringraziamento da parte di una paziente che di lì a poco sarebbe tornata a casa in Venezuela per festeggiare la tanto sudata guarigione; il secondo il ringraziamento di una delle mie migliori amiche per alcune medicazioni alla gamba; il terzo, invece, il grazie per una commissione al supermercato, svolta prima di montare in turno di notte, da parte della mamma di una paziente ricoverata. Io non sono superstizioso, tuttavia considero ciascuno di questi tre oggetti come un portafortuna straordinario perché proveniente da un mio “angelo custode terreno”.

Questa è, per me, la traduzione in concreto del concetto di fortuna.

L’annosa questione dei portafortuna, purtroppo strettamente legata a quella dei porta-iella, non si risolverà mai, esattamente come quella del cibo che fa bene e di quello che fa male, dei segreti per campare fino a cent’anni e di quelli per vivere per sempre felici e contenti.

Francesco Guccini potrebbe portare gli esempi del matto che rise a crepapelle fino alla fine, o di quello che “in preda a pensieri lubrichi, andò sotto un camion di fichi”.

A volte le cose per le quali ci riteniamo fortunati sono quelle che ci procurano più danno, e allo stesso modo quelle che chiamiamo sfortune nascondono tesori preziosissimi.

Credo comunque che a stare tranquilli perché ci si sente fortunati o a stare in ansia perché ci si sente terribilmente sfortunati…beh, si sbagli in ogni caso.

A questo proposito mi sovviene la storia di Armido, un uomo sui quaranta durante le sue giornate che soleva lamentarsi sempre di tutto. Sosteneva per esempio di non essere abbastanza bello, o abbastanza ricco, di non piacere a nessuno e che addirittura la gatta di sua sorella, che solitamente era coccolona con tutti, non se lo filava di striscio.

Conduceva la sua vita in solitudine, con un lavoro, una casa, un’auto e qualche spicciolo in banca. La quotidianità lo annoiava e ogni volta che qualcuno gli chiedeva “Come va?” lui rispondeva “Tiriamo avanti”.

Con la sorella, la padrona della suddetta gatta, quando si vedevano o si sentivano al telefono andava d’accordo per qualche minuto poi solitamente litigavano per un futile motivo. Nonostante ciò lei, pur non abitando troppo lontano da lui, lo chiamava ogni due o tre giorni e andava anche a trovarlo piuttosto spesso. Lei gli voleva molto bene; lui, dal canto suo, pensava che lei fosse molto fortunata ad avere un lavoro, una casa, un’auto, il dannato gatto, una famiglia e molti amici, e che un po’ di quella fortuna se la sarebbe meritata anche lui. Invece niente… era la vita, pensava.

Un giorno, mentre attraversava i giardinetti andando a fare la spesa, una scena catturò per qualche secondo la sua attenzione: un bambino stava giocando con un aeroplanino di plastica tenendolo in alto con la mano e correndo per farlo volteggiare in aria come una freccia in parata mentre con la bocca ne riproduceva il rombo dei motori. Ad un tratto il bimbo, distratto dalla presenza di un altro uomo anziano che passava di lì, si fermò e si voltò verso di lui esclamando:

«Ciao!»

«Ciao!», rispose questi sorridendo, «Che bell’aeroplano!» aggiunse.

«Sì, ma è finto…» specificò il piccolo, lanciando un’occhiata al papà a pochi passi da lui.

«Non se n’era accorto il signore!» fece quest’ultimo rivolto al bambino, ammiccando all’anziano.

«No, non me n’ero accorto infatti!» disse il vecchio continuando a guardare il piccolo, «perché, guidato da te, pare proprio un vero aeroplano! Altroché finto…»

Il papà parve non afferrare, ma il piccolo fu pronto: «Infatti è vero!», e ricominciò a pilotarlo come stava facendo.

Poi l’uomo si rivolse al padre del bimbo, «Se lo tiene in mano uno di noi due è solo un aeroplanino di plastica, ma se lo pilota lui è un vero aeroplano! Anche i miei aeroplani di legno, quando ci giocavo da piccolo, erano veri. Accidenti se lo erano! Buona giornata, arrivederci!»

Salutò con l’occhiolino quel giovane padre che continuava a guardarlo un poco stupito, e proseguì per la sua strada. Così fece allora anche Armido, affrettando un po’ il passo verso il supermercato.

La sera, quando la sorella venne inaspettatamente a fargli visita portando con sé una doppia porzione della torta che aveva appena fatto per provare una nuova ricetta, ancora ci stava pensando.

«Che c’è?» fece lei, appoggiando distrattamente l’incartamento incellofanato sul tavolo del soggiorno «Hai una faccia, tutto ben… oh cavolo!»

Quella mattina prendendosi i pantaloni dall’armadio aveva spezzato senza volere la gruccia in plastica dalla quale pendevano, lisci di stiratura. Gli era già successa una cosa simile da piccolo, prima di un compito a scuola, e gli aveva procurato un bel 4 sul registro. Siccome non era ancora successo nulla di strano durante il dì appena trascorso, era chiaro che la tragedia si sarebbe consumata nel dopo cena: l’arrivo della sorella, a sorpresa, non poteva che esserne il preludio.

“Eccola lo sapevo! Eh ti pareva…”, disse lui tra sé.

Laura Ometto

«Scusami… non l’avevo visto, ma anche tu ad appoggiare la tazza di camomilla sul bordo del tavolo devi essere proprio un genio! Poi una di questo servizio che sembrano fatte apposta per cadere…»

«Sì, ed è per quello che me le hai rifilate, vero??» replicò lui, pronto e tronfio.

«Ah! Rifilate?! Non volevo buttarle perché, come ben sai, sono di nostra madre ed io non posso certo usarle a casa mia con i bambini e con Pallina che ogni tre per due sale sulla tavola per cercare sgraffignare qualcosa. Oramai non ne sarebbe rimasta neanche mezza di quelle tazzine.»

«Pallina… dovresti chiamarla Pallona quella salama da sugo!»

«Ehi! Non azzardarti mai più e smettila di essere così acido, faresti venire la bile anche ai santi! Sai cosa ti dico, che ti avevo portato la torta e invece, come l’ho portata, me la riporto anche a casa.»

«E la camomilla che hai rovesciato chi la pulisce?» fece lui con aria beffarda.

«Tu, così ti sfoghi per bene, iena!»

«Oh, che signora…»

«E buonanotte!» concluse lei sbattendo la porta.

La mente ancora un po’ confusa dalla scena a cui aveva assistito al parco e da un’infinitesimale riflessione autocritica sul suo modo così brusco di trattare le persone, non lo fecero riposare bene. Lo sapeva benissimo che scaricava sugli altri l’insoddisfazione per la sua vita piatta e noiosa, ma non gli veniva proprio nessuna idea su come accaparrarsi un po’ di fortuna.

L’indomani mattina si alzò più stanco della sera prima e si preparò per andare all’ufficio postale a svolgere alcune commissioni. Lamentandosi tra sé per la calura eccessiva, per non parlare poi dell’umidità che… mannaggia a lei se non era la causa di tutti i mali, giunto a destinazione ebbe subito modo di constatare che molti altri avevano pianificato in modo sovrapponibile al suo i loro spostamenti di quella mattina. E gli fu chiaro soprattutto quando, superata la porta automatica, trovò che la sala era già piena zeppa di nervosissimi esseri umani. Un breve scambio di battute con l’ultima persona in attesa, in ogni caso, lo mise tranquillo:

«È pieno di gente, due dipendenti sono andati a bere il caffè e noi siamo qui ad aspettare! Ma si può? Non ho parole» gli fece un tipo in cerca di facile approvazione.

«Ah, le cose non cambieranno mai. E andremo sempre in peggio» replicò lui cercando il compatimento cosmico.

«È quello che dico anch’io!» concluse l’altro soddisfatto, prima di estrarre lo smartphone dalla tasca posteriore dei pantaloni e fingere di dover gestire affari internazionali.

Dopo circa un quarto d’ora di rassegnata attesa accadde però qualcosa di inaspettato. Armido si sentì strattonare la giacca e strappare il taschino tanta era la forza che lo trascinava verso il basso.

Non cadde, anzi, ma non appena si girò di scatto con l’intenzione di difendersi da quello che certamente era un tentativo di scippo in piena regola, vide la vecchia, che fino a un secondo prima gli stava di fianco, a terra e apparentemente priva di senso. Qualcuno stava già provando a tenerla alla meno peggio e non farla cadere a peso morto sul pavimento; quella che doveva essere la figlia gridava “Mamma! Mamma!!!” in faccia all’anziana.

Armido, che in quel contesto apocalittico era, suo malgrado, al centro della scena, senza pensare più alla giacca strappata disse a quella che doveva proprio essere la figlia di calmarsi e di aprire un po’ il maglione e la camicetta dell’anziana madre, a un uomo tatuato disse di alzarle le gambe e allo stesso tempo stava già componendo il numero per chiamare un’ambulanza. Mentre aspettavano, cominciando a realizzare l’accaduto e ad agitarsi a sua volta, seguì le istruzioni telefoniche della centrale operativa e rispondeva alle domande che gli facevano. Fortunatamente la situazione non sembrava (e in effetti non era) così grave, infatti, riavutasi, la malcapitata ebbe a dire e a ripetere ai soccorritori che non voleva saperne di andare via con l’autolettiga!

Tornò a casa per pranzo che era stravolto, confuso, stupito, sfinito, felice… non lo sapeva nemmeno lui. Ma che aveva fatto? Aveva agito senza pensarci su! Neanche riusciva a realizzare come si stava sentendo ora, in effetti, senza un filo di fame ma con un senso di appagamento che non provava da anni. Quella vecchia, i complimenti dei presenti, gli accorati ringraziamenti di quella che si era appurato essere la figlia che lo aveva guardato come come fosse un salvatore. Era confuso ma gli pareva di stare insolitamente bene con sé stesso e con gli altri… decisamente anomalo, decisamente strano, santo cielo!

Avrebbe tanto voluto raccontare quel fatto a sua sorella ma lei quella sera, in cui lui era a cena da loro, non rinunciò a mostrargli ancora un po’ di risentimento per lo sbotto dalla sera prima. La furbona però si fece gentile e umile quando, dopo cena, si avvicinava il momento di avanzare la richiesta che rappresentava il vero motivo dell’invito.

Dopo il dolce e il caffè, e la suddetta gatta da pelare che gli avevano appena rifilato, Armido si era congedato con svariati sorrisetti di circostanza, ben piazzati nei momenti giusti, maledicendosi mentalmente per essersi reso disponibile ad una richiesta così indecente.

Così, la mattina seguente al giorno z-e-r-o, il buon Armido non poteva che essere di pessimo umore. Si diceva più volte che la cosa sarebbe durata solo una settimana, come aveva fatto spesso nei giorni precedenti, ma non serviva a un granché. Non c’era nessuna sveglia da spegnere, non c’era il lavoro perché era in ferie. No, niente di tutto ciò, ma c’era ben di peggio. Il rumore delle unghie sulla porta finestra del soggiorno, al risveglio, era un rumore che proprio…lui non ce la poteva fare. Solo una settimana. Solo… il rumore cessò per qualche istante poi riprese, determinato. Sembrava dire: “Alzati umano, è ora che tu mi serva la seconda colazione!”. Proprio così, erano le 8:30 in punto, come gli aveva pronosticato suo cognato, esattamente com’erano le 5:30 esatte quando quell’essere peloso sembrava gli stesse dicendo: “Alzati umano, servimi la prima colazione e poi fammi uscire!”. Una cosa ridicola, e lui aveva accettato senza fare troppe storie per giunta! Non lo avrebbe più riconosciuto nemmeno sua madre se lo avesse visto in quella situazione considerato il caratteraccio che aveva sempre avuto. Era a servizio della dannata salama da sugo, detta Pallina in memoria dei vecchi tempi in cui non era ancora sovrappeso. E non era lei ad essere sua ospite, ma il contrario: era lui ospite della gatta per non crearle traumi da cambio d’ambiente. Visto che non aveva niente da fare per le ferie, aveva accettato di trasferirsi nella villetta con giardino della sorella con tutte le libertà del mondo e la sola condizione di fare da governante alla scrofa pelosa, che tra l’altro continuava a non volere farsi accarezzare da lui.

E fu sera e fu mattina: giorno due.

La sera prima, tornato da una cena tra colleghi, non vedendo anima viva ad attenderlo alla porta per entrare, aveva chiuso la porta dicendosi allegramente: “Domattina si dorme!”.

Ore 5:10: un lagnoso miagolio si insinuò prima tra i suoi sogni e poi nel buio della stanza. Poco dopo realizzò che qualcosa non gli quadrava e, mentre la Pallona sgranocchiava i suoi croccantini capì che il gatto doveva trovarsi in qualche punto della casa già dal tardo pomeriggio precedente (e non in giardino come lui erroneamente pensava).

Ore 5:25: dopo l’abbeveraggio, il gatto esce.

Ore 8:30: rientro dal giardino con una talpa in bocca, deposizione della talpa sullo zerbino e annuncio del trofeo con 4 minuti di pomposi miagolii lirici. Dopo la cerimonia, rimozione della talpa e lavaggio dello zerbino dai resti delle sue spoglie mortali.

Resto della giornata privo particolari degni di nota.

E fu sera e fu mattina: giorno tre.

Ore 5:15: consueto appuntamento con l’obesa pelosa, rimpinguata la ciotola e cambiata l’acqua come richiesto dallo sguardo stanco della quadrupede. Fatta uscire.

Ore 8:30: nessun trofeo di caccia oggi al rientro, tutto regolare.

Armido, rientrato dal giardino dopo aver svolto alcuni lavoretti che aveva rimandato il giorno prima, trova un sms della figlia della famosa vecchia, appena dimessa dall’astanteria, che lo invita a casa loro a bere qualcosa di fresco nel pomeriggio.

“Certo, ci sarò con piacere, grazie dell’invito!” disse tra sé Armido auto-dettandosi la risposta mentre la componeva.

Dopo pranzo aveva realizzato che pareva brutto onorare un invito arrivando a mani vuote. Non essendo abituato a questo genere di cose e pensò di farsi consigliare dalla sorella la quale, dopo avergli estorto tutte le informazioni che volevano lei e le sue figlie sulla salute della Pallina e del giardino, gli aveva suggerito di portare una pianta o dei fiori per la vecchia. Uscì di casa mezz’ora prima e, consigliato dal fioraio, riscosse poi un discreto successo con un’orchidea.

Rientrò all’ora di cena pensando che erano proprio delle brave persone. Erano rimasti d’accordo che domani l’altro sarebbero venuti a fargli visita la Paola (figlia della vecchia) con i suoi due figli (Federico e Anna) di 10 e 12 anni, che oltretutto aveva scoperto essere amanti dei gatti e incapaci di resistere alla possibilità di coccolare un persiano di razza.

Ore 22:02: la palla pelosa vuole uscire.

Ore 22:10: pensando che tanto non sarebbe mai potuta fuggire dal giardino, Armido si disse che in fondo non c’era nulla di male ad accontentarla. Così l’indomani niente alzataccia!

Ore 22:20: ottenuto via sms il benestare dei padroni dell’animale (divenuto relativamente collerico per l’attesa protratta), lo lasciò finalmente uscire per la gioia di entrambi.

E fu sera e fu mattina: giorno quattro.

Ore 8:00: qualcosa raschiava contro una finestra in lontananza, forse al piano di sotto, forse da un po’. Era sicuramente la gatta. Era sicuramente alla porta finestra del soggiorno. Buongiorno.

Le aprì e si accorse subito che, stranamente, non stava miagolando come faceva di solito. Silenziosa e lenta andò a sedersi sul tappeto, persiano anch’esso, poco oltre la soglia; pochi secondi dopo, due colpi di tosse e poi, di getto, ci vomitò sopra.

«Eccellente!», esclamò lui.

La Pallina poi si era subito diretta verso il suo cesto per schiacciare un pisolino.

Circa due ore dopo si alzò e il governante era lì nei paraggi: lui infatti, dopo aver lavato e messo ad asciugare il tappeto, era rimasto a casa per monitorare la convalescenza del felino il quale ora, assonnato e debole (più del solito), si era diretto verso un angolo della cucina per vomitare nuovamente. La cosa più preoccupante di tutta la faccenda era che non si era neanche avvicinata alla ciotola dei croccantini né a quella dell’acqua. Lui chiamò allora la sorella che, con voce ferma per soffocare la commozione, gli disse che sarebbe dovuto andare subito dal veterinario. La gabbietta si trovava in garage, con tanti auguri!

Ore 11:00: avrebbe voluto farsi una doccia e medicare il graffio sulla mano ma alla fine si accontentò di una sciacquata sul lavandino di un’altra botta di deodorante.

«Ha detto la tua padrona che non dice nulla ai bambini per non farli preoccupare, quindi vedi di stare meglio e in fretta. Tra l’altro domani ricordati che devi essere in forma per Federico e Anna!»

La felina lo ignorò. “Speriamo bene!” pensò Armido, decidendo che avrebbe atteso l’indomani per avvisare la Paola di un’eventuale disdetta.

Ore 11:35: dal veterinario la sala d’attesa era vuota.

«Buongiorno! Ha i documenti della gatta?»

Glieli diede.

«Che cos’ha Pallina?» disse la veterinaria colorandosi di un sorriso.

«Stamattina ha vomitato due volte e non ha toccato cibo. Mi creda, è molto strano. Cosa crede che le sia successo?»

«Ha mangiato qualcosa di strano ultimamente? Ha avuto anche diarrea?»

«Io le ho dato solo i suoi croccantini. No, non ha avuto diarrea che io sappia. Non so se magari stanotte possa averla avuta, ha voluto trascorrerla fuori casa, in giardino.»

«Eh, con questo caldo è normale. Forse ha mangiato qualcosa di strano fuori. Mi ha portato un po’ di vomito?» disse visitando l’animale, ora incredibilmente docile.

«Cosa?! No, mi scusi, non ci ho pensato.»

«Va bene non fa niente, comunque se ha mangiato qualcosa di strano la cosa dovrebbe risolversi entro domani al massimo, altrimenti me la riporti.»

«Mi scusi se glielo chiedo, ma il gatto è di mia sorella ed è con me questa settimana solo perché loro sono in vacanza: è normale che il pelo abbia di questi nodi qua e là? Di solito vedo che ha il manto omogeneo, anche se da me non si fa toccare…» azzardò la frecciatina alla paziente.

«La pettina regolarmente?» chiese la dottoressa.

«Beh… quanto regolarmente?» chiese Armido, intuendo il problema.

«Almeno una volta al giorno.» fece lei, lapidaria.

In quel momento si ricordò di quando sua sorella gli aveva detto di farlo e lui, come meccanismo di difesa, aveva rimosso la cosa all’istante. Il sudore tornò a presentarsi, assieme a una tachicardia ingravescente.

Appena ne ebbe la forza azzardò: «Che faccio adesso? Da me non si fa toccare!»

Lei scoppiò in una fragorosa risata: «Lo farà, si fidi, deve solo capire che si può fidare di lei. Guardi, visto che non c’è nessuno le taglio via io questi nodi che non si possono sciogliere, poi lei oggi pomeriggio la pettina a dovere, e poi domani e così via, ci siamo capiti?»

«Credo di sì.»

Lei in 5 minuti, con mano esperta, rimosse i nodi ormai irreversibili e poi, dopo avergli fatto un breve tutorial su come si pettina un gatto persiano, gliela riconsegnò tranquilla nella gabbietta.»

«Vedrà che andrà tutto bene» lo rassicurò.

«Voglio credere alle sue parole…» fece lui, e lei rise.

Quindi, pagato il conto, si congedò: «Grazie e arrivederci.»

«Arrivederci» lo salutò lei, cominciando a risistemare l’ambulatorio.

Ore 19:45: Pallina, dopo aver dormito tutto il pomeriggio, si alza. Va a mangiare 5 croccantini e a bere due linguate d’acqua.

Ore 21: Pallina non ha ancora vomitato e va a mangiare ancora qualcosa.

Ore 22: tutto bene, ma è giunto il momento.

Mentre la gatta dormiva sul tappeto pulito lui prese il pettine e le si avvicinò accarezzandola piano. Lei sembrò non scomporsi. Così procedette per gradi, lentamente e con una cortesia che non aveva mai usato con nessuno. Poco a poco si prese sempre più confidenza per cercare di fare un lavoro accurato.

Ore 23: il gatto è pronto per vincere una sfilata Incredibile!

Ore 23.30: Armido si addormenta davanti alla tv, visibilmente soddisfatto della giornata.

E fu sera e fu mattina: giorno cinque.

Ore 3:20: Armido si sveglia in divano, con la luce accesa, la tv accesa e il collo bloccato. Il gatto dorme. Spegne la tv, spegne la luce e, arrancando, sale le scale verso un letto vero.

Ore 9:00: il suo orologio biologico, coadiuvato dalle unghie della Pallina sulla finestra, gli dicono che è il momento di alzarsi.

«Ok, prima mangi e poi vai fuori, ma ti tengo d’occhio!»

Mise davanti alla gatta la ciotola e lei la lucidò. Poi bevve, quindi le aprì la porta. Dopo una frugale colazione uscì anche lui per togliere un po’ di erbacce qua e là.

«Oggi abbiamo ospiti!» disse al felino.

Lei lo ignorò, continuando a fare le sue cose.

Ore 15:58: puntuali arrivarono Federico, Anna e la mamma Paola.

Quando ai due piccoli fu presentata la Pallina impazzirono letteralmente e se la coccolarono un sacco. A dire il vero la cicciona pelosa ci sapeva fare coi bambini, sembrava ringiovanire in loro presenza anche quando erano a lei sconosciuti! Con la Paola invece era un piacere chiacchierare, davvero, e gradì molto l’infuso fresco alle ciliege selvatiche che Armido le offrì (su consiglio della commessa del negozio dove aveva fatto un salto il pomeriggio prima in vista di quell’occasione).

Ore 20: salutati gli ospiti, lui e Pallina cenarono. Erano stati bravi.

Ore 23:30: tutti a letto.

E fu sera e fu mattina: giorno sei.

Ore 5:30: Pallina lo richiama in servizio e lui come uno zombie agisce automaticamente, prima come cameriere e poi come usciere, per poi tornare a letto.

Ore 8:40: si svegliò prima che lei cominciasse graffiare la porta.

Scese e le aprì.

Un’altra cosa che Armido aveva dimenticato era che Pallina aveva un debole per lo yogurt. Glielo aveva detto suo cognato il giorno in cui erano partiti. Se ne ricordò quando, aperto il frigo e preso uno yogurt alla fragola scaduto il giorno prima, ne staccò la lamina protettiva per esaminarne lo stato di conservazione e, nel mentre, la quadrupede orientale fece capolino in cucina. Aveva sentito il rumore dell’apertura del vasetto dormendo, e non aveva saputo resistere!

«Che faccio? Lo butto o lo mangio?» le chiese.

Lei lo guardava fisso.

«Mi sembra buono.»

«Mrrroà» sottolineò lei, continuando a fissarlo.

Accertato, con un cucchiaino, che la modesta quantità di yogurt da poco ingerita non era incompatibile con la vita, le porse il coperchio che, in 0,2 decimi di secondo, lucidò a specchio. Le spalmò il coperchio con un altro strato, superando ancora una volta sé stesso come molte volte aveva fatto in quei giorni, e la Pallina dimostrò di gradire anche il bis. Poi tornò a schiacciare un pisolino mentre Armido finiva di fare colazione.

Fuori pioveva, il che si traduceva in “giornata dedicata alla lettura”.

Ore 16:00: ora del pettine.

Ore 20: finito di risistemare alcune cose lasciate in disordine durante la sua permanenza.

Ore 23: piove ancora, Pallina opta per una pipì nella lettiera.

E fu sera e fu mattina, giorno sette.

Ore 8:45: Pallina vuole mangiare e uscire (non era uscita alle 5.30 perché pioveva ancora).

Ore 12:12: tornano i vacanzieri con tutti i loro bagagli.

«Com’è andata?» chiese loro Armido sorridente.

«Insomma» attacca suo cognato scaricando le valige, dopo che i bambini erano già corsi a cercare Pallina in giardino, «è piovuto spesso, siamo stati abbastanza sfortunati. L’unica contenta è Giulia perché dice che a stare in casa con la pioggia le sembra di essere nella nave dei pirati in mezzo a una tempesta. …bambini» disse scocciato.

«Beh, allora è stata l’unica a non farsi rovinare la vacanza dalla pioggia!» considerò Armido, scoppiando in una risata.

Il cognato lo guardò e tornò al suo dovere di uomo di fatica.

Anche Armido prese due valige e le stava lasciando in ingresso quando vide sua sorella nervosissima.

«Beh? Che c’è?» le fece lui.

«Guarda il pavimento! Sono usciti a cercare la gatta e poi sono rientrati sporcando dappertutto… aaah…»

In quel momento gli si parò davanti Dario, il più grande dei due, con un mattone di fango tra le mani: «Guarda zio, ho fatto un dolce per oggi! Mangi con noi?»

«Oh, ma certo!» replicò Armido con entusiasmo, «Mettilo lì sul marciapiede così si rapprende per bene e sarà pronto per dopo!»

Ricomparve la sorella: «Ehi, ma non ti riconosco più! Ma non sei quello che di solito si lamenta sempre? Ti vedo in gran forma invece!»

«Oh, beh… non è mai troppo tardi per imparare alcune cose… comunque muoviti che prepariamo il pranzo assieme!»

«Okkkei» fece lei stupita e felice.

Ore 14:10: pranzo tutti insieme.

Ore 15:30: saluti e rientro di Armido in casa sua.

Sul divano, ripensò a quanto lui stesso si sentisse cambiato. Il punto non era il perché o il come, notava solo con grande incredulità quanto si stava sentendo bene in quel momento! Il velo di negatività che una volta ricopriva tutte le cose sembrava essersi dissolto.

E addirittura aveva già un po’ di nostalgia di Pallina. Pazzesco!

Si disse che non poteva permettersi di ritornare a essere quello di prima, anzi, non voleva!

Per prima cosa decise allora che si sarebbe annotato per iscritto degli avvenimenti degli ultimi giorni, e che da lì avrebbe continuato tenendo un diario, il diario del suo cambiamento sul quale avrebbe riformulato problemi e soluzioni di ogni giorno.

Solo così avrebbe potuto confrontare, capire ciò che in lui gli piaceva di più e ciò che gli piaceva di meno, e fare caso a ciò che lo faceva sentire davvero bene con sé stesso e con gli altri.

Scrisse dunque tutto l’accaduto delle ultime due settimane, dal bambino con l’aeroplano alla vecchia, dalla Paola alla Pallina e compagnia bella.

Solo alla fine si ricordò dell’ultimo litigio con sua sorella, avvenuto non per colpa della tazza di camomilla ma a causa del suo umore nero dovuto alla stupida rottura della gruccia. In quei giorni aveva affrontato le cose senza pensare a fenomeni avversi, alla fortuna o alla sfortuna e ad altre cavolate che da sempre occupavano la sua mente. Aveva vissuto e basta! Capì solo in quel momento di sentirsi semplicemente più leggero e, allo stesso tempo, pieno di risorse latenti che avevano solo bisogno di essere messe in gioco senza il peso delle paure.

Decise in quel momento che alla domanda “Come va?” non avrebbe mai più risposto “Tiriamo avanti”.

Alessandro Navari

IL RIMEDIO DI ORLANDO

C’erano una volta due nobili possidenti detti Mirto e Bacco, che, da bravi fratelli, decisero un bel giorno di contendersi il primato del sonno. Vollero dunque fare a gara a chi ne aveva di più, quantificandolo ciascuno secondo il proprio metro di misura: uno diceva infatti di avere tanto, anzi, tantissimo sonno; l’altro sosteneva che il suo sonno era invece grandissimo, complessivamente molto più grande di tutto quello che vantava il primo.

A dire il vero inizialmente i concorrenti erano quattro, ma poi le cose andarono in questo modo: un terzo, dopo pochi giorni dal “via”, confrontandosi con gli altri scoprì che in realtà di sonno ne aveva molto poco rispetto a loro e decise di ritirarsi spontaneamente; il quarto che, al contrario del precedente, sulla carta faceva invidia e timore ai primi due, a un certo punto non resistette più e si fece una tale dormita che lo perse quasi tutto subito. Lui, contrariamente alle aspettative, si svegliò così tranquillo e rigenerato che accettò molto serenamente la sua esclusione dalla competizione.

Serenità, la sua, che fece irritare tremendamente i due concorrenti rimasti, che magari si aspettavano di divenire oggetto di invidia e ammirazione.

Mirto e Bacco, determinati più che mai, trascorrevano allora le giornate chiusi nei rispettivi castelli, i quali erano separati tra loro da una vasta e fitta distesa boschiva. Entrambi fecero in modo di riempire di impegni le loro giornate, così tanti da non lasciare che ci fosse mai un momento libero né di giorno né di notte. L’obiettivo era restare svegli ad ogni costo fino a che il rivale non avesse ceduto per primo! E, dato che in questo modo c’era un sacco di tempo in più a disposizione, perché non approfittarne per fare economia? Si potevano infatti gestire affari internazionali da un capo all’altro del mondo a tutte le ore perché, grazie al fuso orario, qualcuno di sveglio c’era sempre! Costrinsero quindi il personale di servizio e gli operai a fare anche turni di notte, per coprire tutte le 24 ore del giorno.

A Mirto un giorno venne però un’idea brillante: quella di conteggiare anche il sonno accumulato dai propri lavoratori che, a dir suo, non si sarebbero mai tirati indietro alla proposta di lavorare ad oltranza per dare una mano al loro signore. Comunicò la sua pensata allo sfidante e la sottopose alla valutazione della Commissione per la Gara del Sonno (CGS). Esito: respinta, subito, perché il patto era che a correre per il primato fossero solo i due nobili partecipanti.

La CGS si componeva di medici, avvocati e notai provenienti da luoghi lontani, svincolati dunque da qualsiasi rapporto di parentela o amicizia con i concorrenti, in modo tale che potessero espletare al meglio il loro compito di giudici al di sopra delle parti. Pagati profumatamente, come da loro stessi richiesto per poter operare con grande serietà e precisione senza il rischio cadere in tentazione (anzi, in corruzione!), si godevano tutte le feste a corte e, quotidianamente, si ritiravano nelle proprie stanze per svariate ore, preferibilmente nel dopo pranzo e di notte, per elaborare e documentare formalmente i loro conteggi.

Mirto e Bacco, oltre a dividersi a metà la proprietà del bosco che separava i due castelli, senza saperlo avevano anche un’altra cosa in comune: la passione per la marmellata ai frutti di bosco e per la crema di nocciole. Loro no, ma i loro servitori e boscaioli conoscevano eccome questo loro tratto in comune! In molti erano infatti gli addetti alla raccolta di nocciole, amarene, ciliegie selvatiche, fragole di bosco, more, mirtilli, ribes, uva spina e sambuco che, nella stagione giusta, dedicavano tutta la giornata a quest’unica occupazione, e per giunta sotto pressione perché lavorassero al massimo della resa.

Lungo la linea mediana del bosco, che segnava il confine delle due proprietà, succedeva infatti di tutto, a seconda di chi bazzicava da quelle parti: coloro che volevano farsi notare per fedeltà e scaltrezza di fronte al loro signore, ambendo a chissà quali speciali riconoscimenti, spesso si dilettavano in furti e dispetti; al contrario, quelli che volevano continuare a stare in pace con il mondo coltivavano le buone relazioni mediante scambi generosi e incontri conviviali (o amorosi). Ma questa, a dire il vero, era normale routine a cui nessuno prestava più attenzione. Ora c’era solo la competizione, tesa più che mai.

Un giorno però le cose cominciarono a cambiare. Quello che all’inizio sembrava solo un fisiologico e temporaneo calo della produzione di nocciole e frutti rossi, cominciò ad aggravarsi progressivamente fino a diventare una vera e propria catastrofe: le scorte, nell’una e nell’altra magione, a poco a poco si esaurirono e non appena i rispettivi titolari ne vennero messi al corrente si fecero prendere prima dalla rabbia e poi dalla disperazione! La prima, ovviamente, portò solo a perdere del tempo prezioso durante il quale il problema si aggravò ulteriormente; la disperazione invece portò consiglio: porgere un orecchio ai consiglieri fidati. Entrambi, di fronte agli ultimi vasetti rimasti sulle scaffalature della cantina, e ignari di trovarsi nella stessa situazione, adottarono la stessa soluzione: diedero ordine ai cavalieri di recarsi presso le corti vicine e lontane per comprare marmellata e crema di nocciole, o almeno le materie prime necessarie alla preparazione; nel frattempo, boscaioli e raccoglitori si sarebbero occupati di scandagliare ogni angolo del bosco al fine di individuare la causa della catastrofe. La mancanza di quelle due prelibatezze infatti, unita al sonno, non faceva che aumentare l’irritabilità di Mirto e Bacco, che diventavano sempre più insofferenti a tutto.

Di conseguenza, in breve tempo nelle rispettive corti non li sopportava più nessuno per quanto erano diventati scorbutici. Non fossero stati i “padroni”, nessuno avrebbe esitato a mandarli a quel paese.

Passarono le settimane e le stagioni, e il caso della mancanza di frutti rossi e nocciole nel bosco non trovava soluzione. Nel frattempo il patrimonio economico dei due andava via via prosciugandosi a causa degli ingenti approvvigionamenti. Era però impensabile tagliare quei costi riducendo gli acquisti, perché quei due avrebbero rischiato davvero la pazzia qualora non ci fossero più state quelle delizie ad addolcire il palato e acquietare l’animo così provato dallo stress della gara. Uno scenario terribile, che si profilava all’orizzonte proprio quando il gioco si faceva più duro. Guai a mollare adesso. guai a macchiare la propria immagine orgogliosa e vittoriosa con una sconfitta! Ma pensare alla mancanza di crema o di confettura era insostenibile: e chi avrebbe mai pensato di trovarsi in una simile situazione? Non era mai successo prima d’ora! E se, a un certo punto, non avessero più avuto nemmeno i soldi per pagare l’onerosa CGS? Di nuovo rabbia e di nuovo disperazione, poi di nuovo rabbia e così via…

Un giorno all’ennesima sfuriata di Bacco con una serva che, secondo lui, gli aveva versato l’acqua in modo troppo rumoroso, Eleonora, la signora madre, sbatté le posate sul tavolo e si alzò di scatto gridando: «Adesso basta!!! …e chiedi scusa!!!»

Il signor figlio Bacco, pietrificato, nel silenzio immobile calato nella sala volse lo sguardo alla serva e le bisbigliò uno «…scusa.» Poi abbassò di nuovo lo sguardo e la serva, dopo un inchino, si allontanò (senza nascondere un certo imbarazzo).

«Oggi incontrerai una persona che ho convocato qui a corte nel primo pomeriggio. In silenzio ascolterai quello che ti dirà, quindi mi occuperò io di congedarla con le giuste maniere, che oramai sembra tu abbia perso assieme al senno.»

«Signora madre, io…»

«Zitto!»

Il pranzo terminò in silenzio, tanto era lo stupore in tutti i commensali per l’aver visto il loro signore nei panni di un figlio docile e impaurito. La madre, riprendendo il suo ruolo con polso, aveva saputo far fronte ad una situazione da troppo tempo fuori controllo.

Tuttavia, che cosa avesse in mente, e chi fosse questa persona che lei aveva convocato a corte, nessuno lo sapeva.

Erano quasi le ore 16 quando, nel silenzio del cortile, irruppe l’incedere di un cavallo al trotto che faceva da sfondo a un ridacchiare continuo. Eleonora si apprestò a far aprire il portone d’ingresso e ad uscire per accogliere l’atteso ospite, con un’espressione del viso che comunicava un misto di orgoglio e imbarazzo. In effetti, neanche volendo avrebbe potuto far passare per consueto e ordinario un personaggio che di normale non aveva neppure il cappello! In groppa a un destriero piuttosto vecchiotto, di nome Sacripante, si presentò, al cospetto dei nobili che si stavano disponendo ai due lati della signora madre, niente meno che Tecèto, detto da tutti “il matto del villaggio” anche se lui preferiva farsi chiamare L’Orlando. Amava vestire la sua calvizie con un coloratissimo cappello da giullare, che aveva, appesi alle punte cadenti, dei sonagli che non producevano alcun suono. Il resto dell’abbigliamento variava molto in base, diceva lui, all’outfit che gli consigliava Sacripante la mattina prima di fare colazione (quindi ancora a digiuno dalla sera prima) ma solitamente si componeva di stoffe dai colori molto vivaci e dal taglio anticonvenzionale.

Ma L’Orlando non era chiamato “il matto” per uno di questi motivi: l’appellativo derivava dal fatto che passava le sue giornate a ridere! Rideva forte, rideva piano, sorrideva, ridacchiava… molte erano le varianti, ma tutte sul ridere.

Ovviamente era contagioso e seminava il buon umore anche nelle giornate peggiori per la comunità del vicino paese. Nessuno può dire con esattezza come occupava le sue giornate, ma sta di fatto che tutti i giorni (o quasi) partiva la mattina di andare a inoltrarsi nel bosco selvaggio, quello che non era di proprietà di nessuno. C’è chi diceva di averlo sentito parlare con gli animali una volta, ma sono solo voci. Tornava poi la sera tardi nella stalla al cui interno si era ricavato un mini alloggio dotato, a dir suo, di tutti i comfort. Nessuno sapeva come facesse, ma aveva sempre da mangiare senza chiederne mai a nessuno e, spesso, aveva anche di che aiutare chi ne aveva bisogno. Rubava, direte voi. E invece no! Anzi, grazie al suo udito finissimo – aveva bloccato i sonagli del cappello proprio perché gli davano fastidio – si svegliava subito nel caso in cui di notte ci fossero rumori insoliti provenienti dal paese, molto distante, e in un attimo si fiondava a vedere che succedeva e, scoppiando a ridere, svegliava tutti facendo acchiappare il malcapitato ladruncolo o sventando altre minacce.

Chiusa questa breve ma doverosa parentesi a proposito di Messer L’Orlando (come invece lo chiamavano le donne del paese), torniamo alla corte di Bacco, dove i nobili e, un attimo dopo, il signor padrone stesso, non sapevano se essere più sbigottiti o divertiti. Non si capacitavano di come la signora madre potesse prendere così sul serio un matto del genere ne tanto meno di cosa si aspettasse che dicesse in merito alla drammatica situazione che stavano vivendo. Era forse diventata più pazza di suo figlio, o del matto stesso? Anche suo figlio, incredulo, sembrò sospettarlo, e fece per andarsene con fare disinteressato e nervoso se non fosse stato per lo sguardo autorevole di Eleonora che lo tenne agganciato al suo volere.

Non appena si fece silenzio, prese la parola lei:

«Ho qui convocato Messer L’Orlando perché, da profondo conoscitore dei boschi quale egli è…»

Risatina del giullare, che fece sogghignare i presenti.

«…ha da proporre una soluzione al problema della carenza di frutti rossi e nocciole, causa della nostra caduta libera verso la miseria, sempre più prossima quanto più tempo passa, nonché rischio per la salute di mio figlio, già duramente provata da una competizione sulla quale preferisco non esprimere il mio personale giudizio. Dunque la parola a Voi, Messere.»

«Ahahaha!!! Ehm… dunque… Ehilà! Allora. Giusto due parole. Signore (nel senso di signor padrone della corte), Signora (nel senso di lei, sola signora donna) e signori voi tutti che Sacripante, mentre lo legavo prima di entrare, mi ha chiesto di salutare. Dovete stare sveglio per vincere la gara e, in più, avete problemi con il bosco. La soluzione, a mio cavalleresco parere, che tra l’altro condividevo poc’anzi con Sacripante, è che voi quanto prima, direi di notte verso le 23.30, andiate nel bosco fino al lontano limitare della vostra proprietà, cioè fino alla rete in mezzo al bosco per intenderci… con parole spicce, ecco… avete capito. Ecco, in quel luogo io ho già provveduto a mettere uno specchio! Lo specchio è fondamentale, ma il perché non si può dire. No, non si può dire sennò… sennò niente, ecco. Ma c’è di più: dovete andare là, alle 23.30, vestito di grigio con un panno un po’ peloso che non sia però una pelliccia. Panno: peloso sì, pelliccia no! Ahahah!!! Dovrete stare là, rannicchiato su voi stesso fino a mattina, sempre fermo in quella posizione. Non dovete fare movimenti bruschi, mi raccomando! Nel caso vi vengano proprio, al massimo cambiate leggermente la posizione ma molto molto lentamente, e di poco.

Ah, e dovrete fare silenzio. Concessi solo dei bei respiri profondi.

Ecco. Ho finito. Salute a voi tutti e tutte! Il dovere mi chiama, ahah! …ciao!»

Saltellando uscì dalla sala e, dopo un po’, tutti scoppiarono a ridere. Lui però, il signor figlio, non rise. Era irritato per essere stato tenuto in scacco dalla madre. A dire il vero, gli davano fastidio più le risate dei presenti però, che gettavano nel ridicolo la ferma convinzione di sua madre che sembrava contraria ad ogni logica.

Per ripicca quindi, sfogando il suo orgoglio, prese la parola con fermezza dicendo:

«Silenzio! …e sia! Voi tutti ritiratevi nei vostri appartamenti e non fatevi più vedere fino a che non ve lo dirò io. Voi della Commissione pensate a fare il vostro lavoro. Stanotte stessa andremo nel bosco. Voi, a debita distanza per non distrarmi, starete svegli, come me, mentre io farò quello che mi ha detto. La situazione è drammatica e nessuno di voi finora è stato capace di proporre alcuna soluzione… non mi rimane quasi più niente da perdere, ma voi siete ancora alle mie dipendenze e fate quello che dico io!.»

«Ma signore, nel bosco…», fece un notaio.

«Stanotte dovremmo trasferirci dal suo sfidante per i di lui conteggi…» lo aiutò un avvocato, sogghignando sotto i baffi.

«Ci andrete domani, altrimenti rinuncio alla sfida e vi licenzio ora senza il premio di verdetto, che non mi farebbe male considerate le condizioni in cui versa il mio patrimonio.»

«No no signore, come desidera. Stanotte nel bosco!» si affrettò a concludere il notaio che aveva parlato per primo, facendosi portavoce di tutta la Commissione.

La signora madre procurò un mantello con cappuccio grigio e peloso come richiesto. Poi si assentò per qualche ora dicendo che sarebbe dovuta andare a svolgere delle commissioni in paese. Da sola.

La sera, Eleonora tornò che erano le 22, ma alla corte non c’era già più nessuno. Infatti erano partiti e, come previsto, erano giunti al luogo detto dal matto alle 23:30. Quelli della CGS, come da accordi, si erano fermati prima, mentre Bacco, nel buio, si era avvicinato alla rete fermandosi quando, di fronte a sé, vide una sagoma uguale a lui che gli veniva incontro, lentamente. Solo dopo qualche istante aveva capito che doveva essere lo specchio che aveva messo il matto. Si tranquillizzò e, sempre osservando la sua sagoma che lo imitava a qualche metro di distanza, si rannicchiò a terra trovando una posizione comoda e iniziando a rilassarsi, con respiri profondi e regolari. Dopo circa mezz’ora a qualcuno dei presenti, seppur distanti, parve di sentirlo russare, ma ovviamente nessuno si era azzardato a dire nulla.

Attesero tutti in silenzio, come da ordine ricevuto, senza sapere cosa attendere, senza sapere quando e come si sarebbe manifestato l’effetto di quella cosa bizzarra.

Tutti si rendevano conto di stare facendo qualcosa che usciva da ogni logica plausibile, qualcosa che nemmeno un bambino dalla fervida immaginazione avrebbe mai pensato. Eppure erano lì, chi per un ordine, chi per una fiducia cieca in qualcosa che non capiva.

Laura Ometto

Ad un certo punto un fruscio indefinito, appena percepibile, cominciò a diffondersi in tutto l’ambiente circostante. Inoltre, alcuni luccichii qua e là cominciarono a brillare nei punti in cui la luce della luna penetrava le chiome. Ma ciò che più di tutto intimorì i presenti fu la sensazione di un gioco liquido del terreno, degli arbusti e dell’erba tutto intorno. Qualcuno ebbe la sensazione di essere sfiorato per un attimo da qualcosa di morbido, soffice e veloce.

C’era del timore nell’aria, ma nessuno si spaventò al punto di gridare perché, in un certo senso, nessuno provava un vero senso di pericolo.

Ci volle un altro po’ di tempo prima che la luna arrivasse ad illuminare anche il manto dei due nobili e mostrasse che giacevano ora circondati da una coltre di nocciole e frutti rossi, che cresceva mano a mano che questi venivano portati a ritmo febbrile da una moltitudine di piccoli ghiri che si avvicendavano, senza sosta, in quella danza incredibile. Svariati cumuli crescevano attorno ai due, uno da una parte e uno dall’altra della rete che divideva le loro rispettive proprietà.

La mattina seguente, il sole sorse e i ghiri erano scomparsi. Al loro posto si erano radunati tutti i boscaioli, i raccoglitori, le raccoglitrici e tutto il personale di servizio di uno e dell’altro, tutti sbalorditi da quello spettacolo. Nessuno specchio di vetro. Solo loro due, l’uno di fronte all’altro nella stessa posizione, circondati dai cumuli. Da quanto tempo non erano così vicini quei due fratelli?

Il sole che svegliò i due, tuttavia, non fu che quello di diversi giorni dopo.

Aprirono gli occhi cisposi nello stesso momento e si guardarono increduli, avvolti da un intenso profumo di pane appena sfornato. Erano ancora lì, in mezzo al bosco e la rete che ricordavano non c’era più: al suo posto c’erano delle tavole imbandite per la colazione, costellate di vasetti di confettura ai frutti di bosco e di crema alle nocciole, e ceste piene di fette di pane croccante, bevande di ogni genere, frutta e altre prelibatezze. Non capirono, ma, guardandosi attorno e pieni di un’energia nuova, decisero che abbracciarsi poteva essere una buona idea.

Il clima era festante, allegro. E come avrebbe potuto non esserlo dato che ad animare il tutto era proprio Messer L’Orlando? I due fratelli si sedettero vicini, condividendo la sensazione di essersi risvegliati dopo un lungo sonno pieno di incubi e di sogni molto strani. Scoprirono di avere molte più cose in comune di quelle che pensavano, tra cui un patrimonio ridotto all’osso. Ma nessun nervosismo, nessun velo scuro sulla realtà, tutto era straordinariamente leggero e bellissimo.

«Alla fine guarda se dovevano essere proprio i ghiri a insegnarvi che nella vita si può dare il massimo solo se si dorme bene… ahahaha!!!» disse Orlando ai figli che aveva creduto di aver perso per sempre.

I due si guardarono: «I ghiri!?» esclamarono all’unisono.

Lui invece si voltò a dare un bacio alla signora madre, seduta di fianco a lui.

Alessandro Navarin

UN LOMBRICO

C’era una volta un anellide che si chiamava Lombrico, ma a chiamarlo così, con il suo vero nome, erano proprio in pochi: mamma, papà, fratellini, sorelline e alcuni amici. Tutti gli altri lo chiamavano Verme, Vermino, Vermicino o Vermiciattolo. Da piccolo ci si era abituato velocemente ed aveva imparato a non dare peso alla cosa.

Divenuto però un tantino più grande, durante un litigio qualcuno lo chiamò “Lurido Verme”, e la cosa lo scosse a tal punto che ci rifletté sopra per giorni e giorni. Lui stesso non riusciva a capire perché se la fosse presa così tanto, ma quell’aggettivo usato assieme alla parola “verme” gli aveva risvegliato dentro un sentimento di offesa così grande che non riusciva proprio a ridimensionarlo.

Trascorse un po’ di tempo e anche di quel fatto se ne scordò. Nel frattempo le cose a casa avevano cominciato a non andare più per il verso giusto e Lombrico, come molti altri suoi coetanei che per scarsa volontà o per necessità già non frequentavano più la scuola da un pezzo, dovette anche lui mettere da parte i suoi sogni e andare a lavorare la terra come papà, a tempo pieno. Un lavoro ripetitivo e faticoso.

Oltre al problema “economico”, c’era poi la mamma che non stava tanto bene e aveva bisogno di aiuto almeno nelle faccende domestiche. Così, terminata la giornata lavorativa, a casa c’erano molte altre incombenze da sbrigare e al povero Lombrico non avanzava altro che un urgente bisogno di dormire per recuperare le forze.

Il futuro che si era immaginato con tanto entusiasmo fino a quel momento però, a dire il vero, era molto diverso. D’altronde, non aveva nemmeno tutto il diritto di lamentarsi perché un destino così era toccato a tanti e tanti altri fratelli maggiori che, come lui, facevano parte di una famiglia numerosa e poco abbiente, e sarebbe stato sciocco pensare che lui avrebbe fatto eccezione.

Bisognava comunque essere sinceri e ammettere che, in un primo momento, non trovava poi così male la sua nuova vita: non studiava più, certo, ma aveva finalmente un ruolo indispensabile per la sua famiglia e, in un certo senso, anche per la società. Stava sperimentando la responsabilità, quella vera, quella di cui fino a quel momento aveva solo sentito parlare senza troppo entusiasmo dagli adulti; quella che ti fa sentire importante e meritare il riposo a fine giornata.

Insomma si sentiva stanco e sfinito ma, allo stesso tempo, felice e orgoglioso di sé stesso. In una parola: soddisfatto.

Il lato bello della nuova quotidianità poco a poco però svanì, lasciando spazio alla noia di un’abitudine troppo ripetitiva.

Molti suoi colleghi di lavoro erano così sereni, felici della loro vita; invece a lui così proprio non bastava. L’appagamento del proprio bisogno di sentirsi utile non riusciva a colmare il bisogno di avere dei momenti da dedicare solo a sé stesso, per riposare la mente o per pensare a qualcosa di diverso. Anche se ci provava, nei rari momenti di pausa, non ne usciva nulla di buono: vero, aveva imparato molto sul lavoro e sulla vita “pratica”, ma si sentiva intellettualmente impoverito. Si sentiva a disagio soprattutto quando, in occasione di lunghe chiacchierate con gli amici, faceva fatica a trovare le parole, non gli venivano le metafore, non riusciva a spiegarsi bene e gli altri non lo capivano, per non parlare di quando lui stesso non afferrava concetti semplici che gli venivano spiegati anche più e più volte.

Gli pesava sempre di più il fatto che gli altri lo considerassero, appunto, un Vermiciattolo.

Di tanto in tanto gli tornava alla mente persino la vecchia faccenda del “lurido verme”, soprattutto quando era al lavoro: lì infatti non si usavano mezzi termini e ognuno si portava a casa l’idea che gli altri avevano di lui così come gliela appiccicavano addosso, senza badare a quelle che in molti casi erano solo opinioni di comodo basate su giudizi superficiali e sommari. Quando lo chiamavano Verme, a volte riusciva a rispondere «…ehm… mi chiamo Lombrico», ma nella maggior parte dei casi si prendeva del pignolo o di quello che vuole mostrarsi più intelligente e più colto di quello che è in realtà. «…ma è il mio nome, mi chiamo Lombrico!», «Sì sì va bene, signorino!».

Per il resto, sulle sue capacità nessuno aveva niente da dire, come del resto sulla sua dedizione, perché ci metteva anima e corpo. A calare era solo l’entusiasmo.

Si sentiva dire dai suoi familiari e da molti amici che era normale, al lavoro, trovare molta gente che non ti capisce, che parla a vanvera e a cui stai antipatico. A molti non importa nulla di te e ti considerano uno che non vale niente, dicevano. È normale e bisogna imparare ad adattarsi, la vita è così e si deve andare avanti per la propria strada fregandosene della cattiva gente per dare comunque e sempre il massimo di noi stessi, tradotto in sforzi e sacrifici, per realizzare il benessere proprio e di chi ci sta a cuore.

Quei discorsi qualche volta erano anche serviti a trovare nuova energia per ingoiare qualche rospo e ripartire con una scorza più dura di prima, ma sentiva che continuava a mancare quel qualcosa che lo facesse sentire veramente capito.

A pesargli erano sì le incomprensioni e l’immagine del sempliciotto che lo perseguitava al lavoro, ma presto si rese conto di essere lui il primo a pensare questa cosa di sé stesso, e il primo a cui questa idea di sé non piaceva.

Non aveva più il tempo e le energie per leggere, disegnare, magari per scribacchiare come di tanto in tanto gli piaceva fare; divagare con il pensiero da questo a quell’altro argomento anche solo per porsi domande sulle cose che vedeva, che sentiva, che faceva… nella sua vita attuale mancavano gli stimoli, quegli stimoli di cui aveva sempre avuto tanto bisogno. Non trovava più quelle idee e quegli spunti di riflessione con i quali tante e tante volte aveva coinvolto gli amici in viaggi verso mete surreali e invenzioni assurde che un giorno avrebbero magari anche realizzato in concreto cambiando le prospettive del mondo. Era sempre stato lui quello brillante della compagnia, quello che tirava fuori la fantasia in qualunque occasione, che trovava spunti a non finire per ridere e scherzare.

E ora, cosa rimaneva di tutto ciò? Solo il ricordo, sempre più lontano? No. Era troppo giovane per trovare la felicità, e, soprattutto, ritrovare il vero sé stesso, solo nei ricordi. Doveva ricominciare a fare quelle cose che faceva, che amava fare. Doveva ricominciare a nutrirsi di cultura come al tempo della scuola!

In quel momento sospettò di aver scoperto l’acqua calda, ma ne fu comunque fiero.

Certo, andare a lavorare era stata una necessità urgente, necessaria per la sua famiglia, ma ora era il momento di ragionare con calma e pensare ad una soluzione migliore. D’altronde, quel disagio che sentiva crescere dentro non gli stava dicendo proprio questo? Pensò che facendo una cosa nella quale si fosse sentito veramente sé stesso, realizzato nella mente e nello spirito, sarebbe stato molto più d’aiuto anche alla sua famiglia di quanto non lo potesse essere allo stato attuale delle cose. E dunque era proprio il caso di iniziare subito, sfruttando l’energia di quello slancio incontenibile.

Accelerò il ritmo, sacrificando il tempo del riposo alla febbrile volontà di recuperare ciò che aveva trascurato. Dormiva di meno, faceva tante cose. All’inizio fu tutta soddisfazione, poi però il fisico cedette: gli capitò di svenire al lavoro una, due, tre volte, e a casa non riusciva a portare a termine la metà di quello che aveva imparato a gestire fino a quel momento. Ricadde nello sconforto, e questa volta si sentì davvero solo, ancora più di prima. Il medico lo costrinse a qualche giorno di riposo assoluto e così fece, pur tormentato da quello che avrebbe dovuto fare al lavoro, per i suoi familiari…e per il suo progetto.

Solo a pensarci ritrovava la sua autostima, che credeva di aver perso insieme alla sua elastica e fervente immaginazione.

Il riposo obbligato lo aveva costretto a fermarsi e decise di approfittarne per ascoltare, finalmente, la stanca voce che da troppo tempo reclamava un po’ di attenzione dal profondo della sua anima.

Per la prima volta, da solo in un tardo pomeriggio, conobbe un inaspettato silenzio interno, una quiete in quel caos di slanci e frustrazioni che avevano sempre tanto rumore dentro la sua testa. Una sensazione di dolce abbandono lo rilassò come non mai e, solo in questo stato, libero da ogni ansia o nostalgia, gli si presentò davanti l’immagine di un luogo che ben conosceva da piccolo. Ci andava sempre a giocare, a fare i compiti e a chiacchierare con la sua migliore amica, con la quale c’era sempre stata una sintonia speciale: avevano famiglie, abitudini e interessi molto diversi, eppure passavano ore e ore insieme a parlare e inventare giochi da fare poi alle festicciole di compleanno con i compagni. Cambiando scuola si erano poi persi di vista, però il ricordo di quel luogo era più vivo che mai! Chissà se era ancora come lo aveva lasciato l’ultima volta!

Rimase lì ancora un po’, in quello stato sospeso che lo stava come ricaricando. Poco dopo però, prima che arrivasse qualcuno, prese la decisione e fuggì: si addentrò cauto nella terra, procedendo con l’intenzione di esplorare di nuovo un antico percorso che doveva solo ritrovare dentro sé stesso. Mano a mano che avanzava, la terra si faceva più fresca e umida e, prima di quanto sospettasse, giunse ad una cavità, la stessa cavità che aveva rivisto poco prima. C’era molta umidità e la terra era soffice, perché si trovava appena sopra il livello dell’acqua del fiume.

Era una piccola buca dalla quale, protetti, si poteva stare in superficie cogliendo le vibrazioni che giungevano dalla grande palla luminosa che dominava il cielo. La luna.

Si sentiva un calore non fastidioso, una luce cieca, un impercettibile e benefico stimolo che lo riportava indietro nel tempo. Tutto questo lo aveva dimenticato, ma non era finito da nessuna parte; a perdersi era stato lui, trasportato dal flusso della vita senza giocare con lei, la vita appunto, le proprie carte.

Giocare! Ma quanto era bello giocare? Quando giocava sì che si sentiva pienamente sé stesso.

Nel bel mezzo di questo flusso di pensieri, fu distratto da un rumore appena percettibile. Sembrava provenire da un punto poco distante da lui, nella buca, e, incuriosito, si avvicinò lentamente. Gli pareva di riconoscere una vecchia e familiare figura.

Pochi istanti e…sì, era lui! E chi se lo aspettava? Il suo vecchio insegnante di Cunicoli, a scuola! Solo in quel momento si rese conto di quanto aveva voglia di rivederlo. Lo aveva lasciato in malo modo diverso tempo prima, e con un certo rammarico perché in quella materia andava benissimo: gli piaceva tanto scavare la terra e soprattutto imparare a conoscerla con una sensibilità diversa, più profonda.

Quello che era suo docente preferito, ad un certo punto aveva però dovuto abbandonare la scuola senza il minimo preavviso lasciando in tutti, lui in particolare, un senso di disorientamento. Era davvero forte quando insegnava! Trasmetteva tutta la sua passione per quella materia facendola bella e piacevole come un gioco. Lombrico, fin dalla prima lezione, aveva colto il grande valore che il suo insegnante rappresentava e aveva stretto con lui anche un rapporto di amicizia.

In classe lo trattava come gli altri ma dopo la lezione, se c’era la ricreazione, parlavano a lungo di quello che per il più grande dei due era una vocazione e un hobby: la progettazione di labirinti. In questo si erano trovati, dato che Lombrico con la sua immaginazione sapeva arricchire le idee del professore con mille spunti che aspettavano solo di essere concretizzati. Lombrico si chiedeva spesso se il suo mito vivente avrebbe mai costruito uno di quei labirinti che impiegava così tanto tempo a progettare.

Ma poi la cosa poco importava, perché il bello era fantasticarci sopra, a casa e a scuola, per poi discuterne e architettare insieme.

Ma ora lui era lì davanti, coricato, e sembrava molto stanco. Lombrico avanzò ancora un po’ e tentò un saluto:

«Professore…»

«Ciao Lombrico, caro…» rispose con un filo di voce, voltandosi lentamente.

«È un sacco di tempo che non ci vediamo, ma come mai aveva lasciato la scuola? Ci chiedevamo tutti… io mi chiedevo…»

«Spero di non avervi delusi. Sapevo di essere affetto da tempo da una malattia che mi paralizza. Ho lasciato la scuola, prima che cominciasse a bloccarmi del tutto, per stare con la mia famiglia, per godermi un po’ di tempo in salute con loro.»

«Ma… oh, capisco. Ma quindi ora…»

«Sì, mio caro. I miei figli sono lontani, e mia moglie sta qui con me, mi sta vicino e mi fa compagnia per tutto il tempo che può. Ora è andata a casa a sistemare delle cose. Mi piace questo posto, l’ho sempre amato. Così ho deciso che se mai mi fossi fermato per sempre, lo avrei fatto in questo luogo.»

Ci fu qualche secondo di silenzio, poi Lombrico prese la parola.

«Anch’io amo questo luogo. Sa, venivo sempre con un’amica a giocare qui, da piccolo», disse nascondendo a fatica la commozione.

«È un posto meraviglioso. E poi hai detto una cosa importante… giocare… non smettere di farlo mai», aggiunse il vecchio professore.

«Perché mi dice questo?», chiese tremando.

«Perché… non essere triste… perché chi smette di giocare muore, non è più felice. Io sono felice anche adesso. Ho sempre giocato e lo faccio tutt’ora, immaginando di essere sulla luna, sentendo la sua luce su di me in questo luogo di pace. Ma tu come stai?»

Con un po’ di fatica gli raccontò come erano andate le cose, del fatto che aveva dovuto lasciare la scuola, della vita e degli insegnamenti che ne aveva ricavato.

«Sei sempre stato molto riflessivo e profondo. Ma anche molto brillante, e questo ti permetteva di mettere a frutto le tue grandi risorse. Ora però ti sento stanco, persino più stanco di me… ritorna ad essere quello che eri, gioca ancora e non smettere mai più. E, se non sai da dove cominciare, ascoltati dentro e poi inizia a scavare. Non avere paura.»

«Ma lei…»

«Non pensare a me, sono contento se ti ho trasmesso almeno una parte di quella mia passione per la terra…»

«Sogno ancora le sue lezioni professore.»

«E allora vai, vivi la tua vita fiero di quello che sei e non preoccuparti di nient’altro!»

«Ma professore…»

«Vai, mi ha fatto molto piacere averti incontrato dopo tanto tempo. Mia moglie sta tornando, e se ti vede qui penserà che sei un altro che vuole i miei progetti. Li ho cancellati molti anni fa, consapevole che non avrei mai potuto realizzarli e che chi avesse avuto lo stesso mio interesse, oltre alla grande creatività che a me mancava, ne avrebbe fatti di ancora più belli e interessanti. Ciao mio caro Lombrico, sento che questo è il mio posto e questa è la mia notte. Tu vivi la tua vita!»

«…Grazie professore, grazie davvero di tutto!».

Lombrico se ne andò col cuore carico di sentimenti contrastanti, in lacrime ma con un vigore nuovo, fortissimo.

Si prese ancora qualche momento per sé. Poi tornò a casa, prese qualcosa da leggere e disse alla madre di scusarlo, che sarebbe tornato presto e non si dovevano preoccupare.

Facile da dire, difficile da comprendere, ma la sua determinazione era tale da far sì che non lo ostacolassero.

Prese una direzione, si avvicinò di nuovo alla buca ma a un certo punto cambiò rotta puntando verso il basso. Cominciò ad aprire un cunicolo nuovo, da zero, in una terra che a poco a poco cambiava composizione e opponeva una resistenza diversa. In alcuni punti procedeva più lentamente, in altri più velocemente, in altri ancora si fermava per riposarsi o perché si trovava di fronte ad un problema che non aveva previsto. Allora ragionava e cercava delle conoscenze sia nella memoria che nei suoi vecchi appunti. Gli sembrava di essere tornato a lezione. Riscoprì il piacere che si prova quando l’ingegno emerge spontaneo, quando si usa la creatività. Scavava, scavava, e la cosa, nonostante lo sforzo, gli piaceva. Si stava divertendo! Probabilmente non ce l’avrebbe fatta a sopportare lo sforzo se non avesse lavorato per diverso tempo come papà, cioè senza un fisico allenato.

Proseguì per un tempo che non seppe quantificare fino a quando sentì la terra divenire di nuovo familiare. Alzando gradualmente il tiro, poco dopo si trovò a sbucare in una cavità naturale molto simile alla sua. Capì subito, però, che non era quella ma la sua gemella, proprio dall’altra parte del fiume. Era chiaro, lampante, ma faticava a crederlo sul serio.

L’impresa impossibile, quella di arrivare dall’altra parte del fiume passando sotto il suo alveo, di cui aveva sentito parlare qualche volta a scuola, l’aveva realizzata scambiandola per un gioco. Una rivincita personale, una riscoperta di sé stesso, un grazie al suo professore preferito, un sogno nel cassetto che nemmeno sapeva di avere. Quell’ingegno che aveva dentro in attesa di essere usato di fronte a problemi nuovi gli aveva insegnato tantissimo in quel tempo sospeso nel quale aveva recuperato la sua vita, la sua vocazione.

E sospeso era lui, in quel momento, tra una vita e un’altra.

Si volse indietro e ripercorse quel lungo cunicolo appena aperto, veloce e senza troppe soste, fino a casa.

«Dov’eri finito? Al lavoro ti cercavano, devi riprendere perché tuo papà è affaticato e non ce la fa più…» lo implorò sua madre.

«Papà può stare a casa ed io vado a licenziarmi!» rispose Lombrico con una sicurezza che non gli si vedeva addosso da moltissimo tempo.

«Ma come?» gli chiese lei stupefatta guardandolo come se fosse diventato pazzo.

«Ho aperto un varco che arriva dall’altra parte del fiume, è stato bellissimo, ho imparato un sacco di cose!» e se ne andò.

In breve sparse la notizia. Spiegava come aveva fatto e tutte le diverse soluzioni che aveva dovuto trovare di volta in volta. Non fu facile, ma alla fine quelli che contavano si convinsero a seguirlo nel percorso. Quando si resero conto da soli della verità di quanto aveva detto loro, Lombrico divenne un pioniere per i suoi e per tutta la società fin dove arrivò la notizia.

Per la sua famiglia in breve tempo le cose cambiarono. Lui poté riprendere gli studi e, parallelamente, iniziare ad insegnare in laboratori di Cunicoli e di Scavo. Approfondendo, ebbe modo di sbizzarrirsi nel tempo libero con terreni diversi in luoghi diversi, coinvolgendo i più piccoli nella progettazione e costruzione di semplici labirinti per le scuole e altri via via più grandi e complessi per il passatempo degli adulti. La cosa ebbe un seguito pazzesco, perché perdersi in un labirinto e poi ritrovarsi dava a tutti, ma proprio a tutti, una gamma di emozioni che andava dalla curiosità febbrile alla gioia, stimolava l’arguzia, la soddisfazione della riuscita e, soprattutto, l’antico amore per il gioco.

In fondo che cosa sono in una vita le sconfitte, se non momenti nei quali ci si sente persi? E l’unica cosa da fare non è forse tornare a muoversi e ripartire alla ricerca della via giusta? Come nei labirinti, la via giusta non si vede ma c’è per definizione.

Alessandro Navarin

PS: a questa storia manca un’illustrazione, vuoi farla tu?

Inviami la tua idea: ale13.nava@gmail.com